La precarietà come stile di vita, come risorsa, come evoluzione e rivoluzione. Esiste, si può e in un certo qual modo si deve. O almeno si dovrebbe. Di sicuro l’ha fatto Valeria Orani, “battitrice libera” del teatro italiano, produttrice, organizzatrice, visionaria che ha scelto di trasferirsi a New York nel 2014 perché «è proprio dentro quella precarietà che c’è qualcosa, è proprio toccando quella precarietà che il talento, se ce l’hai, può scatenarsi».
Il suo è un talento vivace. Lo noti subito dall’energia del suo racconto, dall’apparente rigore sardo sciolto nell’allegria e accoglienza della sua risata. Ed è sorridendo che, quando parla del suo trasferimento nella Grande Mela, Valeria usa una metafora d’effetto: «Ho lasciato uno yacht per approdare su una zattera. E parlo di zattera perché è qualcosa di poco sicuro che potrebbe affondare da un momento all’altro. Però sto lavorando per farla diventare un po’ più grande e stabile grazie a qualche bottiglia di plastica che ogni tanto trovo lungo la strada. Certo nella mia traversata potrei incontrare uno yacht pronto ad accogliermi a bordo oppure potrei toccare terra, non lo so, è tutto in divenire il che è elettrizzante. Oggi so che se dovesse succedermi qualcosa sarò in grado di ricostruirmi nel giro di poco, se la salute mi sostiene».
È avvolgente e contagiosa questa sua visione della vita, rivoluzionaria: «Lavoro da più di 30 anni e ho sempre pensato che fosse giusto costruire un futuro. Paradossalmente da quando c’è mio figlio invece penso che non esista questo futuro da costruire. Esiste invece una quotidianità, un presente, ed è spaventoso. Però se ti soffermi su questo e vivi l’oggi probabilmente le cose migliorano».
Si parla, ovviamente, degli artisti e di chi di questo mondo vive e ne ha fatto un mestiere. Proprio come Valeria che dopo aver lavorato per anni come producer e organizzatrice teatrale per varie istituzioni artistiche pubbliche e private, nel 2003 fonda in Italia “369gradi”, un centro di produzione, promozione e distribuzione della cultura contemporanea che ha sostenuto e sostiene artisti della scena dell’innovazione come Punta Corsara e Lucia Calamaro. Ed è proprio “369gradi” il ponte tra Italia e Stati Uniti dove la Orani attracca per studiare la fattibilità di “Umanism NY” la prima società – poi fondata nel 2015 e curata assieme a Frank Hentschker, direttore del Martin E. Segal Theatre Center – che si occupa di mettere in relazione il mercato americano con la cultura italiana contemporanea e che ha lanciato l’I&APP – Italian&American Playwrights Project, progetto biennale che ha l’obiettivo di esportare la drammaturgia italiana negli States e quella americana in Italia e che si avvale sin dalla sua prima edizione del supporto dell’Istituto Italiano di Cultura di New York e della media partnership di Radio3 (Rai).
Questo progetto mi dà l’opportunità di dialogare molto con le realtà americane alle quali proponiamo degli incontri con ospiti speciali così com’è successo con il Teatro delle Albe di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari o ancora con la fortunata e felice intuizione di portare qui Stefano Massini prima del successo di Lehman Brothers. Tra l’altro con questo progetto abbiamo vinto il “Premio per le Traduzioni Fondo per il potenziamento della lingua italiana all’estero 2019”, un riconoscimento assegnato dal Ministero per i Beni culturali che ci rende davvero molto felici.
Il 18 dicembre scorso poi abbiamo chiuso il secondo biennio con un evento durante il quale è stata presentata l’antologia New Plays From Italy vol.3 – Martin E. Segal Theatre Publications, che ho curato ed editato assieme a Hentschker e che raccoglie alcuni tra i più innovativi e stimolanti autori teatrali della scena italiana contemporanea. Durante la serata si è tenuto anche un reading integrale in inglese, diretto da Marco Calvani, del testo teatrale Event Horizon di Elisa Casseri con la traduzione di Adriana Rossetto, vincitore del Premio Riccione per il Teatro 2016, tra i partner del progetto. Ora stiamo lavorando al prossimo biennio e ambiziosamente alziamo sempre più l’asticella della nostra ricerca drammaturgica per cui ci saranno davvero grandi novità.
A che punto è, invece, la drammaturgia italiana?
L’arte va, sempre e comunque, non è che si curi di quello che fa il critico o l’organizzatore. In Italia penso ci sia un deficit di curiosità perché la drammaturgia è quella che vedi in teatro per cui se non la vedi in teatro non sai che esiste. Ed è sbagliato. Qui invece drammaturgia e spettacolo teatrale sono due cose distinte. La conseguenza di tutto ciò è che si atterra sempre sugli stessi autori. Probabilmente si è più concentrati ad avere i soldi pubblici per produrre spettacoli che poi non girano che per costruire dei veri e propri nuclei che aiutano la crescita. Ma è una modalità data dal sistema. Forse bisognerebbe augurarsi un crollo totale, un reset.
Un’altra parola che torna nella storia di Valeria Orani è proprio reset che forse è il presupposto di quella precarietà che diventa linfa vitale per una professione che, così come Valeria la esercitava in Italia, non poteva più andare. Ed ecco il momento di rottura, la crasi che ha portato a pensare a una vita diversa, altra, più fedele a se stessi.
Da quando vivo a New York ho resettato completamente i miei anni romani, è come se non li avessi mai vissuti. Però sono sardissima, addirittura mi sono riappropriata del mio accento che avevo perso e imbastardito con un po’ di romano. Sto facendo delle riflessioni in questo periodo legate proprio a questa lontananza da Roma. E la lontananza sviluppa tutta una serie di elementi che sono connessi con la nostalgia, con la rilettura e la rielaborazione del tuo attaccamento alla famiglia perché poi vai alla ricerca di gusti e sensazioni che ti confortano.
E il rapporto con la Sardegna, da quando è a New York, è diventato più stretto declinandosi concretamente nei suoi ultimi lavori, partendo da Mio cuore io sto soffrendo. Cosa posso fare per te? di Antonio Marras che ha aperto la stagione 2019-20 del Teatro Elfo Puccini di Milano.
Anche questa avventura nasce da un reset e segna un ritorno alla produzione che avevo un po’ abbandonato da quando mi sono trasferita qui. È totalmente differente da qualsiasi progetto teatrale proprio dal punto di vista produttivo perché si tratta di dare voce all’urgenza di un artista poliedrico, di un fashion designer stimato e di grande visione oltre che di grande talento, che però già durante le sue sfilate si era avvicinato all’arte performativa. Per spiegare questa nuova produzione uso le parole di Ferdinando Bruni che lo ha definito una “rivista”. Ecco, non si tratta di uno spettacolo ma di una serie di suggestioni tenute assieme dalle coreografie di Marco Angelilli così come i vestiti di Marras sono tanti pezzi di tessuti differenti cuciti insieme da suture molto evidenti. Il mio compito in questo caso è stato quello di capire che cos’era questa urgenza e difenderla. In passato ho difeso urgenze di artisti anche molto bravi ma che avevano un fine differente più legato al proprio percorso individuale. In questo caso siamo in una nuova dimensione, slegata da logiche di alcun tipo.
Un altro progetto che lega Valeria Orani alla sua terra, la Sardegna, è un viaggio di andata e ritorno che abbraccia il teatro ma anche l’ospitalità e l’identità e che può essere racchiuso in una sola parola: anima.
Il tema della lontananza è sempre presente nella mia ricerca perché tutto quello che produce la lontananza è sempre molto interessante dal mio punto di vista. Connesso con questo sentimento c’è poi il concetto di identità che è un qualcosa di strano e controverso oltre che inutile fino alla modernità. Anche perché la nostra identità è sempre un miscuglio di identità. Ho quindi deciso di partecipare a un bando delle Regione Sardegna chiamato “IdentityLab2” (Comunità Europea PO FESR 2014-2020 _ Bando IdentityLAB2 /Regione Autonoma della Sardegna) coinvolgendo Fabio Acca, produttore esperto di danza e di arte performativa contemporanea. Ci siamo chiesti che cosa fosse l’identità, come fosse visibile nel lavoro degli artisti che non vivono più nella propria terra. Perché alla fine la bizzarria dell’identità è proprio questa ovvero che più ti allontani, così come se fosse un elastico, più ti si appiccica. Nasce così Amina>Anima Soul che è composto da 4 fasi. La prima – Sardegna-New York-Sardegna – si compone di 3 residenze qui a New York affidate a tre artisti guidati dalla curatela di Fabio, che elaborano uno studio su un progetto la cui ispirazione è un topos sardo e che porterà alla fine a un confronto con delle lectures. Ha aperto Alessandro Carboni con Contèx-Ere scegliendo come topos il disegno tradizionale sviluppato nel paese di Nule in Sardegna, denominato fiamma di Nule. L’obbiettivo che si è posto Alessandro è stato quello di attivare una riflessione sull’idea di tessitura e di telaio e sulle sue relazioni con le arti visive, i processi cartografici e lo spazio scenico.
Seguiranno poi Cristian Chironi con Imagine & Imagination che rileggerà attraverso lo studio di materiali e tecniche più recenti le memorie delle tradizioni abitative sarde su altri piani di lettura, e Maurizio Saiu che con Sa dom’e s’orcu partirà dall’interazione, a lui cara, tra danza e vocalità per raccontare una Sardegna che qui assume i contorni di un luogo evocativo.
La seconda fase – Mio Cuore By Antonio Marras Nyc – è invece legata allo spettacolo di Antonio Marras che verrà qui a New York a maggio ospite de La MaMa Theatre uno dei teatri più importanti della storia della scena contemporanea newyorkese. Nello stesso periodo ci sarà anche la terza fase – Curatorial Food Program – legata al discorso enogastronomico sardo che prevede due progetti: il primo curato da Enrico Costanza, culinary gardener ed esperto di contaminazione tra arte culinaria e arte contemporanea; il secondo curato da Laura Sechi che è un’appassionata di cucina alla continua ricerca del gusto e della fusione di vari cibi. L’ultima fase – The Journey – sarà appunto un viaggio verso la Sardegna che vedrà la restituzione del lavoro delle residenze nei luoghi che le hanno ispirate e l’organizzazione di conversazioni tra persone che saranno selezionate – penso a giornalisti, curatori, professionisti che hanno a che fare con le arti o anche giovani esperti di web e social – che si incontreranno per capire qual è il territorio di riferimento di questo progetto e come poi questo territorio possa essere positivamente sfruttato non con un turismo di massa, che è quello che caratterizza la Sardegna ma che a noi sardi non piace, ma con una integrazione temporanea tutta da scoprire. Le risposte le aspetto proprio da questo progetto ambiziosamente incentrato sull’anima. Amina è infatti anima in sardo ma è anche una parola che se la leggi al contrario la traduce. E visivamente è proprio questo percorso di andata e ritorno, per cui i nostri ospiti partiranno da qui con un’anima, che in inglese è soul, ma torneranno con un’amina sarda. O almeno si spera! È una grande opportunità perché potrebbe aprire una nuova fase del mio lavoro.
E il concetto di anima non è casuale nella storia lavorativa di Valeria.
L’anima è la nostra essenza. La puoi chiamare in tanti modi ma è quella cosa che ti definisce. Alla fine siamo 21 grammi. Tutto quello che faccio è sempre connesso con la spiritualità. Anche quel meccanismo che ti permette di cambiare la mente in azione fa parte della spiritualità che nel mio caso si chiama buddismo. Se quello che facciamo non si lega a qualcosa di più profondo allora tutto perde senso.
Valeria è arrivata a New York anche grazie al visto per “extraordinary talent”. Ma, mentre ricorda questo dettaglio, ride ancora, quasi, incredula.