Dal 1987 il Premio Scenario scommette sulle creatività giovanili, le va a scovare e le sostiene. Spinge avanti giovani artisti al di sotto dei 35 anni.
Da mercoledì 3 luglio a venerdì 5 luglio, negli spazi del DAMSLab/Teatro di Bologna sono stati presentati 12 corti teatrali di venti minuti a conclusione di un articolato percorso di selezione: una finestra di eccezionale valore sul panorama teatrale emergente.
Sono stati giorni in cui ho avuto l’occasione di condividere creazioni differenti le une dalle altre: in alcune si percepiva il lavoro artigianale dell’attore, in altre una originale idea scenica, in altre ancora il puro divertimento, che tuttavia ha accompagnato lo spettatore a provare un’autentica commozione. Non sono mancate, poi, opere in cui sembrava rimanere nell’etere l’idea di un qualcosa che avrebbe voluto essere ma che non è stato, perché fermo, nella sua staticità, perché non in grado di far arrivare il “pugno allo stomaco”, forse perché ci sarebbe stato ancora tanto lavoro da fare. D’altronde, siamo sinceri, in 20 minuti non è semplice riuscire a concentrare uno spettacolo di 60 minuti o più.
Venerdì 6 luglio, la Giuria del Premio Scenario – presieduta da Marta Cuscunà (teatrante e femminista, vincitrice del Premio Scenario per Ustica 2009) e composta da Gianluca Balestra (presidente di Elsinor e direttore del Teatro Cantiere Florida di Firenze), Stefano Cipiciani (vicepresidente dell’Associazione Scenario, presidente di Fontemaggiore), Elena Di Gioia (direttrice artistica Agorà), Cristina Valenti (presidente e direttore artistico dell’Associazione Scenario, docente di Storia del Nuovo Teatro e Teatro sociale, Università di Bologna) – ha decretato i vincitori e i segnalati della Generazione Scenario 2019.
Vincitore del Premio Scenario 2019: Una Vera Tragedia di Favaro/Bandini (Milano) con la seguente motivazione: «Una Vera Tragedia è un’originale sperimentazione del dispositivo drammaturgico in cui il testo incombe sulla scena in forma di proiezione e procede con sorprendente autonomia scardinando il rapporto fra testo e azione drammatica. L’identità biografica e psicologica dei personaggi è continuamente resettata e messa in crisi in un interno borghese che richiama l’immaginario lynchiano e le atmosfere sospese e inquietanti dei dipinti di Hopper. In un momento in cui cinema e serie televisive propongono modalità narrative sempre più efficaci, Una Vera Tragedia è un thriller torbido e feroce che apre un discorso critico sulla prosa teatrale, ne scardina con radicalità i meccanismi rilanciando il teatro oltre i suoi codici».
Una Vera Tragedia è un lavoro che si gusta sin dalla prima scena. Non abbiamo il tempo di capire, di entrare nella storia, che immediatamente ne veniamo allontanati per essere immersi in un altro quadro dove regna un’angoscia che fa da eco anche alla narrativa americana di Carver, a rapporti che si frantumano tra alcool e incomprensioni. Il linguaggio teatrale si plasma in mano a questa giovane compagnia. Lo spettatore è sul palco con gli occhi sgranati, cerca di capire dove vogliono portarlo gli attori. Sembra un gioco, in cui la didascalia – proiettata dietro i tre interpreti – fa da padrona. E sarà proprio essa a condurre alla totale afasia di uno dei personaggi: si entra in un’altra dimensione interiore, che sa di irrisolto, di ignoto, di immaginifico.
Vincitore del Premio Scenario Periferie: Il colloquio del Collettivo lunAzione (Napoli) con la seguente motivazione: «Nella liminalità di un’attesa che è condivisione di un tempo sospeso, tre donne si contendono un territorio ristretto, dove i legami spezzati dal carcere si riflettono inesorabilmente in una reclusione altra, introiettata eppure reale. Fra legami negati e solidarietà imposta, Il colloquio è la fotografia spiazzata e spiazzante di un’antropologia indagata nelle sue ragioni sociali e culturali profonde e apparentemente immodificabili, dove il femminile è restituzione di un maschile assente e quindi fatto proprio, con efficace scelta registica, da tre attori capaci di aggiungere poesia all’inesorabilità di storie già scritte e aprire spiragli onirici imprevisti».
Il colloquio è un testo drammatico imbastito, però, con quell’ironia tagliente che soltanto il teatro napoletano sa restituire. La risata amara e la compassione – per ogni gesto e ogni parola della messinscena – si alternano con grande equilibrio sul palcoscenico. C’è, poi, uno studio attento della realtà di Napoli che ricorda quella di Enzo Moscato in Scannasurice o in Occhi gettati. La lingua napoletana arriva comprensibile come l’italiano ed è scandita da una straordinaria musicalità che rimanda all’attesa di tre donne maritate di fronte al carcere della città partenopea. La scelta che siano tre uomini a interpretarle serve a creare un distacco dalla quotidianità napoletana per permettere allo spettatore di “provare” compassione, ma ricordando tuttavia che si trova in teatro, un luogo dove tre personam (tre maschere) raccontano.
Due le Segnalazioni Speciali: al progetto Bob Rapsodhy di Carolina Cametti (Milano) con la seguente motivazione: «Un linguaggio che irrompe, come pioggia intrisa di poesia. In scena un corpo moltiplica le vite, i flussi, i desideri, taglienti e affilati, di un noi che spalanca un urlo, poetico e politico sulle ferite del nostro oggi. Con una originale e innovativa partitura drammaturgica e interpretativa, Carolina Cametti dimostra una intensa capacità di raccontare il presente, di far incontrare e scontrare paesaggi, di farsi carico di molte voci inanellandole nel gancio affilato della rima, del ritmo, del respiro che accelera, contrae, ferma, rincorre una inquieta rapsodia del dolore, una corsa accelerata in un possibile canto del mondo oggi. Bob Rapsodhy manifesta la cifra personale di una artista che ci sorprende come autrice e come interprete».
Lo spettacolo in questione, in cui domina la parola, a un certo punto perde (volutamente) la rima in versi accompagnata da qualche gesto poco scandito, poco chiaro, che dà vita a una sorta di “affanno” dell’attrice, forse perché lei stessa è intenta a recitare, cercando di occupare tutto lo spazio scenico. Per questo “troppo,” ella talvolta pare essere più concentrata su di sé che sul catturare l’attenzione del pubblico con il risultato di non riuscire sempre a restituire con chiarezza il tema dello spettacolo: una interessante e delicata riflessione sul disagio sociale, purtroppo poco percepito. Poterla vedere in scena, con una lettura del testo, accompagnata da musica live, avrebbe sicuramente stimolato maggiormente gli spettatori.
Segnalazione Speciale anche al progetto Mezzo chilo di Serena Guardone (Capezzano Pianore, LU) con la seguente motivazione: «Mezzo chilo racconta e interpreta il privato con coraggio e verità. Un diario che si fa narrazione civile nella capacità di infrangere con ironia il tabù della vergogna celata nella patologia. Riuscendo a costruire un affresco di momenti scenici, veicolati da una fragilità emotiva che si fa partitura fisica, Serena Guardone ci offre un teatro che esplora con consapevolezza e rigore il tema del disturbo alimentare».
Chi ha sofferto di una patologia e intende portarla in scena in prima persona fa uno sforzo emotivo enorme, concentrando la propria attenzione a ripercorrere traumi più o meno risolti. L’operazione di Serena Guardone, a mio avviso, riesce a metà: il coraggio dell’attrice di raccontare il disagio e la malattia si scontra con un’idea scenica molto debole; in più ritengo sia stato un peccato non far emergere l’ironia di alcuni passaggi proprio per la troppa tensione che si respirava in scena. Però, ripeto: concentrare in così poco tempo un’idea di spettacolo “completo”, non è cosa da poco.
Tanta vitalità e efficacia sono passate anche in altri spettacoli in concorso come, ad esempio, in Sound sbagliato di Le Scimmie (Napoli). Uno spaccato di Napoli (forse i Quartieri Spagnoli?) che vede protagonisti cinque ragazzi, i quali devono compiere una rapina, sebbene siano pur sempre cinque giovani, con i loro sogni, i loro modi di dire, le loro famiglie. Ragazzi che insieme mangiano panini e bevono birra, mentre immaginano cose che non possono vedere, anche se a loro va bene così, perché sognare è un lusso a Napoli e fare branco non è soltanto una cosa negativa. Nel tempo ristretto della messinscena c’è tutto: tecnica attoriale, studio, energia che commuovono e una eco di Ragazzi di vita di Pasolini nella drammaturgia.
Vedere tanti giovani sul palcoscenico emoziona sempre: il messaggio che arriva è che c’è ancora la voglia di raccontare storie e di denunciare il malessere di sopravvivere, soprattutto nel Sud Italia, in un luogo come il Teatro dove le persone dovrebbe essere chiamate a incontrarsi e a confrontarsi.
Mi rendo conto che non è semplice salire su un palcoscenico, muovere il piede senza tremori, restare vigili, essere coerenti con il messaggio che si vuole far arrivare agli spettatori, ma sono convinta, però, che deve esserci sempre un’idea precisa di quello che si vuole dire e di “come” si vuole dire, servendosi di tecnica, studio e ricerca.