L’attribuzione di un’opera anonima a un autore noto è come un felice ricongiungimento, uno scioglimento lieto, un’agnizione sotto finale da festeggiarsi come si conviene, con un “tutti” coronato da doppio matrimonio. Ma, si sa, le feste di famiglia, specie quelle allargate, nascondono sempre qualche rancore, e così di solito, dalle attribuzioni, a guadagnarci di più è il figlio riconosciuto, a cui si regala di colpo una nobile ascendenza, mentre il padre spesso si trova solo un’altra bocca da sfamare. Ciò perché i capolavori che fanno la fama di un autore, quelli più notevoli, sono appunto quelli di cui la paternità si è conservata nel tempo.
Ma se quel padre è il compositore Alessandro Stradella, la situazione è diversa. Intanto per questioni numeriche: solo sei opere sue sono giunte fino a noi, una delle quali incompleta. E poi perché la quasi totalità di esse risale al periodo più tardo dell’attività del compositore, gli anni genovesi. Insomma, un compositore della “scuola romana” restava quasi senza prove della sua attività romana nel campo del melodramma. Un’altra ragione, questa volta extramusicale, è che probabilmente sono state più le opere scritte su Stradella, che quelle, riconosciute, di Stradella. La fama del compositore fino a pochi anni fa era dovuta non tanto al valore della sua opera, ma alla vita avventurosa che ha affascinato biografi e artisti. Trasferitosi in giovinezza a Roma dopo la morte del padre, è costretto ad abbandonare nel 1677 la città papale, probabilmente per l’accusa di aver combinato un matrimonio «con un pover’huomo scemo di testa, ma pieno di borsa», cioè per aver organizzato delle nozze forzate, aiutato dal castrato Giovan Battista Vulpio. La fuga conosce un breve periodo veneziano, ma anche qui è costretto a fare frettolosamente i bagagli per aver sedotto un’allieva di canto: la sconterà a Torino, dove probabilmente gli stessi parenti della ragazza lo lasceranno in fin di vita in una sorta di agguato camorrista. Miracolosamente sopravvissuto, conclude a Genova le sue peregrinazioni dove mette insieme diverse opere e probabilmente qualche altro imbroglio, qualcosa che gli costerà la morte per assassinio la notte del 25 febbraio 1682. Ecco perché schiere di letterati e compositori (Louis Niedermeyer, Friedrich von Flotow, Adolf Schimon, Giuseppe Sinico, César Franck, Virginio Marchi, Salvatore Sciarrino…) affascinati dalla sua figura gli dedicarono musica.
Ora, in questo tetro groviglio di fattacci, che sa di Eugène Sue, spunta, da altri cupi vicoli (quelli della Biblioteca Vaticana), il testamento di quell’equivoco Vulpio, il quale aveva, fra i duecento volumi di musica in suo possesso, anche una composizione priva di firma ma che l’atto dichiarava stradelliana. È Amare e fingere, opera in tre atti del 1676, libretto di Apolloni, ispirata a Fingir y amar, commedia di Agustin Moreto. Eroe del ritrovamento il prof. Arnaldo Morelli dell’Università dell’Aquila che, prestando fiducia al testamento, ha scovato la partitura nel Fondo Chigi.
Ma com’è questa Amare e fingere, questa figlia riconosciuta? Per raccontarla bisogna partire dal contesto.
A circa cinquanta chilometri da Roma sorge un palazzo che vale ben più di una visita. Di forma pentagonale, ma circolare nella corte interna, costruito sopra una ripida erta a dominare il paesaggio circostante, con un rapporto con le strade di accesso tale da insediarlo nei manuali di architettura militare e di urbanistica, è il Palazzo Farnese di Caprarola: qui, e nei luoghi attorno, ha luogo il Festival Barocco Alessandro Stradella, con masterclass, concerti, opere, oratori. Questo è il luogo deputato al primo ascolto italiano di questa musica resuscitata. Se ne è occupato Andrea De Carlo, specialista di Stradella: è colui che sta guidando lo Stradella Y (Oung)-Project, l’incisione discografica delle opere e degli oratori del nostro per la casa discografica Arcana, già arrivata al quinto volume.
Con lui, sul palco delle Scuderie Farnese, l’ensemble strumentale e vocale nato dallo Stradella Y (Oung)-Project, composto di soli giovani, un “vivaio” di talenti che oggi compie otto anni. È qui che con tempi – cioè ritardi – romani, calate le luci, suonano le prime note, dopo più di trecento anni di silenzio.
La trama di Amare e fingere è pretestuosa e incomprensibile, come al solito, un “nodo avviluppato” fatto di mascheramenti, agnizioni, menzogne, ritratti donati nel sonno, lettere smarrite, con quattro amanti spaiati da “sistemare” nei giusti accoppiamenti, un vecchio e una servetta, ma la qualità poetica di arie e recitativi rivela una raffinatezza letteraria ignota a molti libretti dei secoli successivi. È la musica, soprattutto, a essere avvincente: colpisce per la sua facilità, per la capacità di parlarci direttamente, senza mediazioni. L’antefatto è presto sbrigato, e già nel recitativo d’apertura le note mostrano di saper seguire fedelmente il testo, senza scivolare in automatismi con un lessico che sa di Tasso e Ariosto, con puntature mariniste nell’uso frequente di concettosità e ossimori («Che barbara pietà!», «Celia: Addio Rosalbo, io parto / Rosalbo: Celia t’inchino, io resto / […] / Rosalbo: Intendo amor, ma non intendo amare», «Se vuoi sapere il nome / Sul foglio del tuo seno / Con sanguinosi carmi / Lo scriverà il mio ferro»). Anche gli scambi di rapide battute non sono da meno, come quello nella scena nona del terzo atto, i prodromi al duello di due rivali in amore, che corre sul filo di una violenza provocatoria tanto nel testo quanto nell’intonazione. E le arie, tutte, hanno una leggerezza aerea che non si spegne nemmeno quando il sentimento espresso è cupo, come l’aria di furore di Fileno «Ira, sdegno, furor…», e sempre di immediata comunicativa, poiché gli abbellimenti, quando presenti, non impediscono la comprensione delle parole: si tratta di vero teatro in musica.
Nelle arie, spesso a due sezioni, più di rado a tre, le rare modulazioni inattese hanno sempre una finalità espressiva, come la seconda quartina di Clori, sempre a terminazione sdrucciola, tutta singhiozzi «E se a te giungere non ponno i gemiti / Sciolta dal carcere / Serva invisibile verrà quest’anima» (ancora atto III, X scena), o l’ultima terzina del curioso duetto di “non amore” tra Celia e Fileno che recita «Celia, un nume tu sei / Ma non quel ch’io vorrei», a cui la non-amata fa eco «Fileno, un Dio tu sei / Ma non quel ch’io vorrei». Insomma è una musica appassionante che, stretta stretta al testo non lascia spazio alla noia, ben sostenuta dalla direzione e dall’esecuzione brillante dei giovanissimi orchestrali. Di qualità non uniforme la compagnia di canto (da rifinire per molti la dizione italiana) composta però di elementi tutti promettenti. Si nota il bel colore e il volume di Fileno/Yuri Miscante Guerra, la maturità espressiva e la penetrazione del suono di Clori/Sophie Garcia e il timbro singolare e conturbante di Silvano/Antonia Fino. Gli unici punti deboli si trovano nella regia, che è una mise-en-éspace priva persino di attrezzeria e purtroppo punteggiata da buchi di comprensione del testo, dalla mancanza di una visione globale e da veri nonsense, come un Rosalbo che si addormenta letteralmente in piedi. Un po’ più di libertà, di attenzione, e persino di sfacciata fantasia teatrale, anche senza scene e costumi, non avrebbero guastato: in fondo siamo tutti disposti a lasciarci ingannare da questi amori intrecciati e leggeri. E poi «Non s’intende d’Amor chi non sa fingere».
Amare e fingere
opera per 6 voci, 2 violini e b.c.
di Alessandro Stradella
Stradella Y (Oung)-Project
con Beatriz Arenas Lago, (soprano), Nikolay Statsyuk (tenore), Sophie Garcia (soprano), Yuri Miscante Guerra (basso), Antonia Fino (contralto), Magdalena Pikula (soprano)
direzione Andrea De Carlo
regia Pawel Paszta.
Scuderie Farnese, Caprarola (Viterbo), 14 settembre 2019.