Senza svelare la chiave drammaturgica a sorpresa, con la quale Maurizio De Giovanni ha aperto le porte alla sua immaginazione teatrale, anche autobiografica, in Il silenzio grande, visto al teatro Quirino di Roma, possiamo dire che il plot riguarda la vita e la storia di una famiglia borghese e dei suoi rapporti col mondo dei morti. Senza perderci in troppe citazioni, non si può non ricordare che nel teatro napoletano (un nome fra tutti Eduardo De Filippo) è molto presente in termini sia di costume che di cultura etnoantropologica il rapporto fra vivi e trapassati, tra l’oggi dei vivi e lo ieri di chi sta in una presupposta altra dimensione. Tale rapporto a volte è coniugato nei termini di un’abitudinaria religiosità, altre volte come un rewind di fatti e fattacci condivisi o meno, in un percorso vicino magari ad un Ibsen, che ha il carattere di un processo a quanto è accaduto; e altre volte ancora, qui in Italia, e alludo a Testori (La Monaca di Monza) sono stati portati in scena personaggi di morti, una sorta di revenants. E ancora possiamo ricordare, come altre variazioni, certe opere legate al surrealismo anni Venti -Quaranta (si leggano alcune pagine di Artaud, ad esempio). Le variabili, comunque sono tante, e ne valga almeno una, decisiva: lo spettro del padre di Hamlet quando apparendo al figlio di fatto dà l’avvio all’eterna sua vicenda.Credo comunque che non è facile, ancor di più nel nostro tempo, trattare a teatro in modo efficace tali temi, a partire dalla stesura del copione da mettere in verticale sulla scena. Naturalmente il tema può essere banalizzato, o esorcizzato, come la fantasia massmediatica legata alla festa di Halloween dimostra. O anche ridotto a fantasticherie malate, psicopatologiche (e al proposito Alessandro Gassmann, regista di Il silenzio grande, ha dichiarato di aver anche tenuto presente il film del 1961 di Antonio Pietrangeli Fantasmi a Roma); e per chiudere il cerchio possiamo tornare a Eduardo e al suo Questi fantasmi, dove persiste assoluta l’ambiguità in cui consiste la poesia della vicenda teatrale: mai sapremo se il protagonista crede o no all’apparizione ripetuta del benefico fantasma, che abiterebbe un antico palazzo napoletano. A teatro non si danno certezze, tutto è alluso, indiretto, sottotestuale.
Se ho insistito su tale aspetto centrale è perché, anche nel caso dell’autore, Maurizio De Giovanni, noto e valoroso autore di romanzi gialli e polizieschi, portati anche sullo schermo televisivo (I bastardi di Pizzofalcone), ma poco avvezzo, se non sbaglio, alla scrittura drammaturgica, il trattare temi e motivi di tal genere non è affatto semplice; e ciò vale anche per il regista e per gli attori. Innanzi tutto, a mio parere, si deve scegliere una linea guida di forma di genere, e successivamente variarla con proprie invenzioni: dramma psicologico, commedia ilare a sfondo popolare, tragedia borghese familiare? E come si deve poi portarlo sulla scena con efficacia, oltreché con bravura espressiva?
A me è parso che la confezione dello spettacolo, per così dire, abbia, per usare una metafora gastronomica, mescolato un po’ di comicità di parola e di carattere, un pizzico di dialettalità, un po’ di dramma familiare e generazionale, una nuance di mistero, una certa dose di immaginazione di stampo televisivo e cinematografico. Una pietanza a mio parere non del tutto riuscita, con alcune incoerenze e ingredienti non necessari. Ne risulta che poco incidono i colpi di scena, meccanismo fondamentale a teatro, e anche che alcune soluzioni sceniche siano piuttosto o inutili o aggiunte senza una vera ragione intrinseca.
Chiaramente dal punto di vista della messa in scena la maggior responsabilità, in prima istanza, viene assunta dal regista, e dal drammaturgo per l’intreccio e i dialoghi, che comunque, in questo caso, offrono al pubblico medio dei teatri cosiddetti di prestigio, o maggioritari, o, insomma, stabili, sia privati che pubblici, i cui spettacoli ci danno giù con le spese ad esempio di scenografia anche imponente e suggestiva, offrono un prodotto accattivante e anche piuttosto gradevole. Sulla scena comunque vanno gli attori e grosso merito in questo allestimento, va a Massimiliano Gallo, che è Valerio Primic, il capofamiglia, scrittore immerso nei suoi libri, distaccato dalla realtà quotidiana, e caduto in disgrazia, e alla comprimaria Monica Nappo, che è una “cameriera da camera”, capace di sfuggire alla dimensione della caratterista, a tratti col dono di una saggezza popolare non superficiale; i due interpreti, di scuola prettamente napoletana, sanno svariare i registri, affrontando bene toni e mezzi toni, e azzeccando ogni siparietto in grado di muovere il riso, e non solo (dalla sua parte Gallo si può anche fregiare degli attuali successoni televisivi e cinematografici). Meno felice la prova di Stefania Rocca, nella parte di Rose, moglie di Valerio, monotona vocalmente, dall’incerta dizione, quasi fuori parte, forse disabituata alle scene teatrali dopo molti anni di un apprendistato davvero importante. Bravi i due giovani attori che impersonificano efficacemente i figli dello scrittore Valerio Primic e di Rose, e cioè Paola Senatore nel ruolo di Adele, una ragazza sentimentalmente del tutto instabile, e Jacopo Sorbini, in quello di Massimiliano, alla ricerca, da omosessuale, della sua felicità.
Molto piacevoli e scenicamente originali le proiezioni mentali dei personaggi, in specie di Valerio, realizzate con figure che vengono proiettate, con effetto di realtà, su un velatino quasi invisibile alzato verso il proscenio. Ben scelte le musiche, ma piuttosto didascaliche le luci.
Il silenzio grande
di Maurizio De Giovanni
con Massimiliano Gallo, Stefania Rocca, Monica Nappo, Paola Senatore, Jacopo Sorbini
regia Alessandro Gassmann
regista assistente Emanuele Maria Basso
scene Gianluca Amodio
costumi Mariano Tufano
light designer Marco Palmieri
suono Paolo Cillerai
elaborazioni video Marco Schiavoni
musiche originali Pivio & Aldo De Scalzi
foto di scena Manuela Giusto.
Teatro Quirino, Roma, dal 15 al 27 ottobre 2019.