Un testo scritto è sempre la punta di un iceberg: il precipitato di un’enorme quantità di movimenti, impulsi, stimoli, percorsi interni che forse neanche l’autore, al termine del suo tragitto, riuscirebbe a ripercorrere all’indietro, rintracciando con esattezza le ragioni da cui scaturisce un episodio, un personaggio, una frase. Questo è tanto più vero per il progetto di Caravansaray Selinunte San Siro, in cui il sommerso è immensamente più ampio del visibile, in un’operazione che fa convergere i percorsi di non uno ma ben cinque autori che non potrebbero essere più diversi. Un progetto che ha una genesi e una formazione lunga e stratificata, che si articola in momenti diversi e in criteri particolari, a cui spesso – purtroppo – gli autori teatrali e letterari non sono abituati.
Si fa infatti presto a dire: “lavoro sul territorio”. Il territorio – e il quartiere di San Siro non fa eccezione – si presenta come una superficie dura, difficile da scalfire se non con una lunga frequentazione, con pazienza, con costanza, con una interrogazione continua e una fedeltà tenace, condizioni necessarie perché si creino le premesse di una confidenza minima, di un linguaggio comune, perché insomma qualcosa finalmente “si sveli”: qualcosa di non banale, di non retorico – qualcosa di “vero”. Questo progetto ha concesso a quattro autori il lusso di un percorso ampio, il privilegio della pazienza, del tempo della ricerca.
Abbiamo frequentato per quasi un anno alcuni tra i principali luoghi di aggregazione e di coagulo sociale del quartiere: la scuola di lingue di Alfabeti, le ex-portinerie dei Custodi Sociali diventate sportelli e luoghi d’incontro, il centro di ricerca del Politecnico in via Gigante, le panchine di piazza Selinunte, le riunioni delle associazioni di quartiere, i cortili, i bar, le pizzerie, i luoghi d’incontro. Sono state trovate persone, agganciate delle storie, iniziate delle amicizie; sono stati approfonditi dei filoni, vinte delle reticenze, perforati dei silenzi; sono state accompagnate delle lamentazioni, composti dei racconti, giocate delle tombole, cantate delle canzoni. Si è sfiorato insieme, tante volte, il ridicolo, la retorica, il senso d’inutilità che sempre si rischia quando si mettono a reazione mondi diversi che non si sono mai incontrati prima, e che ancora non sanno come parlarsi.
Questi percorsi hanno portato alla elaborazione di quattro diversi testi drammaturgici, ognuno dei quali restituisce un personalissimo tragitto, una particolare acrobazia. Bruna Bonanno ha scritto un corale di voci, un agonismo dove una pluralità innumerevole di figure gioca al rilancio, come un’orchestra che tenti continuamente di superare il proprio volume, di guadagnarsi l’orecchio dell’ascoltatore; Diamante ha costruito insieme ai ragazzi del quartiere delle martellanti, barocche litanie rap; Anna Serlenga ha aperto un piccolo zibaldone tutto al femminile, un coro di donne perlopiù straniere, mentre io mi sono indirizzato verso una trasfigurazione fantastica, una sorta di favola urbana. Infine Angela Demattè – il cui testo chiude la drammaturgia – ha scritto un compianto, una lamentazione laica sui morti – i tanti morti che il quartiere di San Siro ha avuto durante l’epidemia. Giacché l’epidemia ha tagliato in due questo lavoro, staccandone il troncone principale dal suo epilogo naturale. Ha segnato un cortocircuito, un tragico buco nero: diverse fra le persone incontrate in quartiere nei mesi prima, perlopiù fra gli anziani, se ne sono andate.
I testi, pur diversissimi fra loro, hanno una forte caratteristica comune: sono corali, privi di personaggi comunemente intesi e di caratteri con una precisa fisionomia psicologica. A parlare sono piccole orchestre, nugoli di voci, schiere di fantasmi. Se il quartiere ha una sua drammaturgia, è una drammaturgia plurale, incoerente, polifonica, che Benedetto Sicca, con una potente intuizione, ha voluto inchiodare a cinque corpi giovani, capaci di sintetizzare queste pluralità, restituire la pulsazione, la vocalità lontana e insieme viscerale di un quartiere che talvolta appare, al centro, lontano come un altro mondo, e che invece del centro è il precipitato, la materia oscura. A volte il contrappeso o il contrappasso – ciò che non si vuole essere, ciò che non si vuole diventare. Non solo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma anche “ciò che potremo essere, ciò che forse già siamo”. È un coro che nasce dalla periferia e parla al centro, per arricchirlo, nutrirlo, e insieme per turbarlo; un coro in cui forse riconoscere ciò che di potente e vero già esiste – i cuori segreti di una città. Del resto è stato Alessandro Manzoni – un milanese, non a caso – a sostenere che il Coro teatrale ha una funzione primaria e imprescindibile: quella di «spettatore ideale».
Caravansaray Selinunte San Siro
un progetto di drammaturgia partecipata per la rigenerazione di spazi urbani periferici
testi di Bruna Bonanno, Angela Demattè, Anna Serlenga, Fabrizio Sinisi, Daniele Vitrone in arte Diamante
coordinamento drammaturgico Fabrizio Sinisi
regia Benedetto Sicca
in scena Francesco Aricò, Emanuele D’Errico, Dario Rea, Francesco Roccasecca e con i rapper Diamante, Flo’w, Scock e Anima VDP
aiuto regia Marialuisa Bosso
scene Luigi Ferrigno e Rosita Vallefuoco
costumi Giuseppe Avallone e Mariacarmen Falanga
light designer Giuliano Almerighi
sarta di scena Maria Laracca
musiche di Damekuta e Diamante
testi canzoni rap di Diamante, Flo’w, Scock e Anima VDP
collaborazione alla produzione Teatro Sannazaro di Napoli.
PiccoloTeatro Grassi, Milano, dal 25 al 27 settembre 2020.