Voi che avete vicino strumenti di musica,
e un canto, ecco aprire con amore il silenzio
(Aldo Capitini, Colloquio corale. Inno, mov. 2, vv. 25-26)
Nel saggio Critica della cultura e della società del 1949, il filosofo tedesco Theodor Adorno enunciò il principio che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere oggi poesie» (in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, trad. it. di Carlo Mainoldi, Einaudi, Torino 1972, p. 22). Troppo grande fu la tragedia dell’olocausto perché risulti ancora possibile ricorrere alle parole magniloquenti e altisonanti con cui i poeti precedenti tentavano di descrivere il mondo. Come preciserà nel successivo saggio Dialettica negativa (trad. it. S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2004, pp. 327-330), Adorno ritiene poi che cultura, critica della cultura e la scelta di restare in silenzio siano parimenti «spazzatura». La sola possibilità della poesia sembra così essere l’esternazione del «dolore incessante», paragonabile all’urlo del martirizzato che sa benissimo che il suo sfogo non serve a nulla, e tuttavia gli consente di “scaricarsi” dagli orrori che il suo corpo patisce.
In un certo senso, il recente cortometraggio Canto abbagliante e recuperante di archiviozeta si pone sulla stessa linea del pensiero di Adorno. Approfittando della ricorrenza della strage di Salvemini del 6 dicembre 1990, data in cui un aereo militare si schiantò contro l’Istituto Tecnico Salvemini di Casalecchio e uccise dodici bambini, la compagnia si interroga sulla possibilità della poesia di fronte alla tragedia e si risponde che, oggi, forse è lecito solo un canto “barbaro” che sia appunto abbagliante e recuperante. Li accompagna nella ricerca di queste qualità la poetessa umbra Anna Maria Farabbi, che attinge soprattutto ai suoi versi tratti dalla sua raccolta Adlujè (Il Ponte del Sale, Rovigo 2003).
La struttura del lavoro è lineare e, proprio per tale ragione, efficace nella sua semplicità. Esso inizia con un breve preludio, in cui un testimone dell’incidente aereo (Gianni Devani, all’epoca vice-preside della scuola) racconta la dinamica della tragedia e documenta il persistente bisogno di giustizia dei familiari delle giovani vittime. Lo Stato assolse, infatti, il pilota dell’aereo e non assunse l’Istituto Tecnico Salvemini quale parte civile. Segue un dialogo tra Farabbi ed Enrica Sangiovanni di archiviozeta, che si pongono “qui e ora” il problema di come realizzare il canto per i defunti della strage e per i loro parenti ancora vivi. Entrambe sono concordi che ciò che conta non è tanto il contenuto, bensì il ritmo, detto «spina dorsale dell’opera». Se ci fissasse sugli eventi, del resto, si incentiverebbe soltanto il patetismo e il vittimismo: una reazione forse “troppo umana” e comprensibile, ma che non consente di guardare oltre il disastro e, dunque, non aiuta vivi e morti ad affrancarsi dal proprio funesto destino. Il canto mancherebbe, insomma, del carattere «recuperante» che Farabbi e Sangiovanni intendono ricercare. Solo un ritmo permette di raccogliere in una «voce unica» le lacrime, le urla, le imprecazioni, l’indignazione dei vivi.
Ma anche il ritmo – ossia il linguaggio che cerca di farsi movimento armonioso nel tempo – incontra limiti. Come va infatti organizzato, modulato, intonato questo canto? Qui Farabbi e Sangiovanni si muovono in un territorio meno sicuro, che le avvicina al problema dell’indicibile. Il loro dialogo sottolinea infatti più volte che il “farsi” di questa poesia coincide in realtà con il suo “disfarsi”. Nel momento in cui, ad esempio, la poetessa Farabbi cerca di raccontare «a voce alta» il dolore di una madre delle vittime, ella cade di colpo nell’afasia. La poesia semplicemente non vuole apparire, le si sgretola con la grana della voce. Farabbi riesce solo a ripetere i versi già collaudati in passato, tratti dalla lirica Ninnananna anna nel buio della sopra citata raccolta Adlujè: «Non c’è il senso quando la tempesta buia / abbaglia, / storpia e poi affonda / non c’è il senso». Di qui la qualità del canto che, come da titolo, è definito “abbagliante”. La luce che sorge dal ritmo non illumina nel senso che getta luce sulla tragedia, rendendola comprensibile. È una luminosità che acceca e, pertanto, coincide con l’oscurità del non-senso. Più si canta per i morti, più si precipita nelle regioni del silenzio.
Chiamare comunque “poesia” questa «voce unica» che raccoglie vivi e defunti è improprio. Come dice Farabbi a metà dell’opera, è più preciso parlare di «filamenti poetici» o «conflagrazioni poetiche» che sono il corrispettivo dei «frammenti incandescenti» scagliati in alto nel cielo dall’aereo in picchiata contro le mura del Salvemini. Per rispecchiare il non-senso e le frammentarietà della vita, occorrono ritmi altrettanto sincopati e spezzati. È un buon caso di espressione “barbara” di cui parla Adorno, se ricordiamo che tale aggettivo qualifica un linguaggio balbettante e incoerente (“barbari” erano del resto chiamati tali i popoli non-greci che parlavano male il greco). Ma si tratta, in ogni caso, appunto di frammenti infuocati, che hanno una vitalità e una forza bruciante maggiore rispetto al discorso organizzato a puntino, che pretende di essere totalmente poesia e non un suo minuscolo “filamento”. La lingua che balbetta organizza comunque un ritmo con una sua virtù recuperante e incisiva.
Fin qui si potrebbe pensare che archiviozeta si muova a braccetto con il nichilismo, perché dichiara senza equivoci il non-senso di esistere e l’impotenza di fronte alla tragedia. Questo rischio è però evitato per due ragioni. Da un lato, archiviozeta si ispira dichiaratamente al Colloquio corale di Aldo Capitini. Si tratta di una grande opera in versi che loda la gioia del contatto degli esseri umani in festa, la ricerca di un ponte tra vivi e morti, l’impegno a raccogliere in un’unica forma o voce la molteplicità del reale per dire “no” agli orrori del mondo, di cui la compagnia cita proprio verso la fine una parte della sezione intitolata Canto (Pacini, Pisa 1956, pp. 21-22). Il parallelo mostra allora che il racconto dell’inferno della strage di Salvemini serva a infondere la speranza che da altri inferni attualmente in atto si può uscire, che il non-senso è inevitabile ma sostenibile. L’unica differenza tra Capitini e archiviozeta è che, se il primo è dominato dal sentimento della gioia, il secondo adotta nel Canto abbagliante e recuperante un dettato asciutto, quasi anaffettivo, che sia Farabbi che Sangiovanni adottano nel loro dialogo. Ciò è dovuto al fatto che Colloquio corale crede ancora nel dominio della forma, nella fiducia della poesia che archiviozeta (insieme ad Adorno) ritengono ormai impossibile.
Dall’altro lato, archiviozeta paragona più volte questo ritmo balbettante e abbagliate alla voce cristallina di un bambino, o anche a un utero che accoglie la memoria dei morti per permettere loro di rinascere a nuova vita. Ne segue che il balbettìo dell’espressione barbara del Canto abbagliante e recuperante è il sintomo di un anelito a una modalità di distacco dall’orrore e dal nulla dell’esistenza. Il bambino che gioca si concentra, dopo tutto, su un compito che lo allontana dalla pesantezza del mondo e, così facendo, non ne apprende le sue numerose nefandezze.
Può darsi allora che questo ritmo barbaro e sincopato sia un modo di attraversare l’inferno senza farsene corrompere. La luce abbagliante-recuperante di questo canto consola i vivi e aiuta i morti a ritrovare una seconda vita, una nuova giovinezza.
Canto abbagliante e recuperante
a cura di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
conflagrazioni poetiche Anna Maria Farabbi, Aldo Capitini
partitura musicale Patrizio Barontini
con Anna Maria Farabbi, Antonia Guidotti, Gianluca Guidotti, Enrica Sangiovanni
con la partecipazione di Gianni Devani
percussioni Luca Ciriegi
riprese e montaggio Andrea Sangiovanni
riprese e audio Luca Rizzoli
luci e tecnica Gregorio Fiorentini
in collaborazione con ATER Fondazione/Teatro Comunale Laura Betti di Casalecchio di Reno, Comune di Casalecchio di Reno, Associazione Vittime del Salvemini – 6 dicembre 1990, Casa della Solidarietà Alexander Dubcek
con il contributo di Regione Emilia-Romagna – Memoria del ‘900.
I crediti fotografici sono di archiviozeta.