Questa volta uso deliberatamente la scorrettissima prima persona, che ho rinnegato per tutti questi anni di scrittura giornalistica (è la prima regola che ti insegnano!). Non voglio fingere con il lettore. Non posso nascondermi dietro una relazione impersonale che non è mai esistita. La prima volta che ho visto Lisa Natoli io cominciavo a scrivere e lei, sedicenne, debuttava come attrice diretta da suo padre Lisi. Ero di pochi anni più grande ma sufficienti per capire la bellezza e la forza di quello che mi trovavo di fronte. Si trattava, se non ricordo male, di uno spettacolo su Majakovskij, o forse su Esenin, o magari su tutta la poesia russa. Eravamo al Teatro Spazio Zero, allora diretto appunto da Lisi Natoli, di cui ancora oggi ricordo il volto severo, bello, l’occhio chiaro, che portava avanti per difendere la sua anima fragile. Lì conobbi anche Silvana, la madre di Lisa, donna di fibra umanissima, sempre sorridente, intellettuale materna, seria cultrice di letteratura fantascientifica. Scattò una specie di “riconoscimento d’anime”. Non si può dire che diventammo amici, ma col passare degli anni ogni volta che io e Lisa ci siamo incontrate, abbiamo manifestato un affetto sororale che va oltre i fatti, gli eventi, e persino le morti. Lisi e Silvana non ci sono più, ma tutto quello che Lisa è oggi è anche il frutto di quello che due genitori così speciali le hanno trasmesso. La poesia russa e la science fiction sono rimaste le sue grandi passioni. Ma questo sarebbe troppo poco. Non si tratta solo di buona educazione, di condivisione intellettuale di valori e testi. Qui è in ballo qualcosa di diverso. Non facciamo altro che rimpiangere certi tempi. Ma quali tempi? Non c’è stata un’epoca aurea dell’umanità. Ogni epoca ha i suoi santi, i suoi criminali, le sue estasi e le sue violenze. La differenza, però, la fanno le persone. Lisa è una di quelle persone che, crescendo, si è tenuta stretta alla sua fragile umanità, al suo entusiasmo, a un senso sotteso di gratitudine verso quello che la vita le ha portato, e le ha tolto, per poi riportarlo in altre forme. Ora, tutto questo preambolo per dire che, nonostante la consapevolezza di questo filo sottile, a dispetto della storia che ci unisce, quando al Teatro Argentina si sono accese le luci su When The Rain Stops Falling, l’ultimo spettacolo firmato da Lisa Natoli e dalla sua compagnia lacasadargilla, ho capito subito che mi trovavo di fronte a qualcosa che trascendeva le vicende biografiche e storiche e mi è accaduto quello che non mi era mai accaduto finora: per l’intera durata dello spettacolo ho dimenticato di trovarmi a Roma, al Teatro Argentina, e neanche avrei saputo dire chi firmava quell’opera distopica, travolgente, in grado di fare “il lavoro dell’anima”. Così come non conoscevo Andrew Bovell, l’autore australiano che aveva scritto il testo, allo stesso modo non conoscevo la regista che lo firmava. Cioè, non la conoscevo nei termini in cui “presumevo” di conoscerla. Insomma, ho visto lo spettacolo come se mi trovassi a Londra e avessi assistito alla prima di un’opera magnifica e non vedessi l’ora di tornare a casa per dirlo a tutti. A questo punto, non starò qui a dire nel dettaglio il perché e il come di tutto questo. La forma impersonale della recensione critica l’abbiamo scartata fin dall’inizio. Quello che posso dire è che When The Rain Stops Falling è un’opera d’arte. Non dirò capolavoro, perché anch’esso è una formula abusata. Troppi capolavori in giro, così come ci sono troppi geni e un’infinità di primati che non fanno che azzerare la percezione plurale, porosa delle cose del mondo. Questo pezzo d’arte vivente ha il potere di far vibrare corpo, voce, suono, rumore, parola, palcoscenico, tessuti, oggetti, tutto, su una partitura siderale, sottile, che ci fa sentire con tutti i mezzi l’impermanenza di tutti i fenomeni, per quanto amati. Non è un gesto ascetico, quello di Lisa Natoli e dei suoi stratosferici attori, ma un atto di compassione per gli uomini e le loro cadute. Purtroppo non potremo vedere (o rivedere) lo spettacolo fino alla prossima stagione, ma ci auguriamo che possa girare non solo in Italia. Nel frattempo, potremo leggere il testo di Bovell, pubblicato da Luca Sossella (all’interno della collana di drammaturgia curata da Giacomo Pedini), e prepararci a incontrare queste sue figure tragiche, impegnate in azioni semplici come mangiare, bere, verniciare, cucinare una zuppa d pesce, azioni che si ripetono nell’arco di quattro generazioni, incrociando tra Londra e l’Australia le vite di due famiglie, gli York e i Law. Sarà sconvolgente ricostruire la trama del destino, che tesse la sua tela tra cielo e terra, scatenando uragani e nubifragi. Tempeste analoghe dormono già tutti i giorni e tutte le notti con noi, aspettando solo il momento giusto per esplodere, dentro i nostri letti, al caldo dei nostro focolari, dentro le case, all’ombra delle famiglie. Perché niente è più terrifico dell’uomo. Tutte le volte che il suo inconscio si mette seriamente, brutalmente al lavoro, non ci sono porte, non ci sono stanze, non ci sono treni né aerei né montagne isolate che possano limitare gli effetti delle sue azioni e dei suoi desideri. Questo nel male, come nel bene. Ad un certo punto della sua sconvolgente opera (che è teatro, romanzo, poesia, epica, lirica e sceneggiatura), Bovell cita Frankenstein di Mary Shelley. Perché è vero, come dice Henry, il capostipite di una serie di tragici eventi, che «il 1816 fu l’anno senza estate: grandi ondate di gelo e tempeste si abbattono sul Nord America e sull’Europa, in pieno giugno. Seguite da settimane di piogge insolite per la stagione. I raccolti vanno in malora. I prezzi vanno alle stelle. In Cina c’è una carestia per il raccolto di riso andato distrutto. In Inghilterra e in Francia rivolte per il cibo. Un disastro completo». Ma è anche vero che, come gli ricorda Elisabeth, «proprio in quell’estate del 1816 in Svizzera Mary Shelley scrisse Frankenstein». E vorrei aggiungere che quella notte buia e tempestosa del 1816 Mary era in vacanza vicino Ginevra, con suo marito, il famoso poeta Percy Bysshe Shelley, Lord Byron, John William Polidori (il medico di Byron) e Claire Clairmont. A causa dell’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia, il mondo restò senza estate. Il gelo e la tempesta che ne seguirono obbligarono anche i giovani amici a non uscire da casa per giorni. Quel tempo dilatato andava usato e, dopo aver letto ad alta voce Fantasmagoriana, una collezione di ghost stories tedesche, si impegnarono a scrivere, ciascuno per conto proprio, un racconto di fantasmi. Nessuno partorì nulla di buono. Con l’eccezione di Mary, che a quel tempo aveva 19 anni ed era solo “la moglie di”. Dopo aver captato un frammento di conversazione tra suo marito e Byron, che parlavano dell’esperimento scientifico di un italiano, Luigi Galvani, che aveva animato le zampette di una rana morta con l’elettricità, Mary si mise a letto, ma non riuscì a dormire. In quelle ore tra il sonno e la veglia, ebbe la visione di “uno studente pallido” che si inchinava di fronte alla “cosa” che aveva messo insieme…, I saw the hideous phantasm of a man. La mattina dopo annunciò a tutti che aveva avuto un’idea. Era nato Frankenstein.
When the rain stops falling
Quando la pioggia finirà
di Andrew Bovell
da un progetto di lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli
traduzione Margherita Mauro
con Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano
scene Carlo Sala
costumi Gianluca Falaschi
disegno luci Luigi Biondi
disegno del suono Alessandro Ferroni
disegno video Maddalena Parise.
Teatro Argentina Roma, dal 26 febbraio al 3 marzo 2019.
Il libro:
Andrew Bovell, When the Rain Stops Falling, traduzione Margherita Mauro, Collana Linea di ERT Fondazione, Luca Sossella, Bologna, 2019, pp. 121, € 10,00.