Che cosa vuol dire oggi difendere uno spazio di libertà? Che cosa vuol dire essere indipendenti nella gestione di una radio, dando voce quotidianamente a attori, autori, compagnie della scena teatrale italiana e non solo? Ne abbiamo parlato con Maria Genovese che, con una grande professionalità e tenacia, mantiene viva Radio Frammenti. Una realtà di inestimabile valore in grado di testimoniare e narrare l’universo culturale del nostro presente.
Era il 12 maggio del 2020, quando su Liminateatri abbiamo pubblicato una tua intervista sulla nascita di Radio Frammenti. È passato quasi un anno e mezzo. Radio Frammenti, come ci auguravamo, ha trovato un posto in cui e da cui resistere?
Intanto grazie per l’interesse che ancora una volta dimostri verso Radio Frammenti. È stato un periodo complicato per tutti e lo è stato anche per me e per il lavoro che faccio.
La resistenza mi accompagna da sempre come accompagna i progetti che sono indipendenti e non finanziati. Se vuoi esistere devi resistere e per entrambe le cose non è detto che ci si riesca sempre.
Nonostante le difficoltà derivanti dalla pandemia, sono riuscita a creare una parte di quello spazio di racconto che è alla base della radio che mi piace fare, poi però ci sono tante cose del progetto che per forza di cose non ho potuto ancora realizzare.
Quindi per rispondere alla tua domanda sì, Radio Frammenti ha trovato il suo posto e prova a trovarlo tutti i giorni, nel tentativo di concedere un tempo più dilatato a quello che racconta.
Quali sono stati i progetti che hai realizzato in questo anno per Radio Frammenti?
La prima cosa che mi viene in mente e che mi ha dato molta gioia è relativa ad Altre vite, il podcast di cui parlavamo nella precedente intervista. Sono stata contattata dalla direzione artistica del festival Giardini del Suono a Villa Sciarra (Roma) per presentare il progetto radiofonico e per far ascoltare alcuni estratti audio mandati da chi ha voluto condividere un pezzo della propria vita durante la pandemia.
Vedere persone con le cuffie che ascoltavano racconti di altre vite, parlare poi con loro rispetto a quello che questo ha significato, è stato molto emozionante.
Non solo per il dato in sé ma perché Radio Frammenti è anche un contenitore che veicola bellezza che arriva da chi la vuole condividere. Quando ho pensato a quel podcast avevo proprio sperato di vederlo vivere in quel modo.
Ho fatto la regia e il montaggio di due podcast, Attori bloccati in teatro e Diario collettivo che sono stati l’esito di due laboratori condotti da Carlotta Vitale e Mimmo Conte di Gommalacca Teatro. Un’esperienza complessa rispetto a tante registrazioni fatte in luoghi diversi e con supporti diversi, ma che alla fine mi ha fatto sentire pienamente parte della compagnia.
Poi ci sono le collaborazioni con alcuni festival come Fuori Programma diretto da Valentina Marini; Primavera dei Teatri diretto da Scena Verticale; TenDance diretto da Danila Blasi e Richy Bonavita; Teatri di Vetro diretto da Roberta Nicolai
Sto lavorando, inoltre, ad un audio documentario che ho realizzato per il Teatro Biblioteca Quarticciolo durante La vita attorno a un tavolo, ideato da Paola Berselli e Stefano Pasquini del Teatro delle Ariette, un progetto che si è svolto nei cortili del quartiere romano e che parte da una sorta di backstage del film realizzato da Alberto Caviglia nella stessa occasione.
Ho collaborato con Puro Teatro, rassegna diretta da Angela Antonini e Andrea Fazzini del teatro Rebis che mi ha portato a trasmettere interi spettacoli riadattati per l’occasione in formato radiofonico e a realizzare altri contenuti tra cui il programma Inspirazioni diffuse, ideato dal critico e dramaturg Giulio Sonno e curato insieme per quattro puntate.
Cosa pensi del ruolo che ha avuto in questo periodo di pandemia la radio? Mi sembra ne siano nate tante.
La risposta è meno semplice di quel che sembra. Provo a sintetizzare.
Penso abbia avuto un ruolo fondamentale. Nel momento in cui tutto il mondo si è fermato, la radio ha avuto la capacità di colmare, in maniera immediata, alcuni vuoti che hanno definito le nostre esistenze. In realtà non è stata la radio a cambiare secondo me ma il modo in cui le persone hanno cominciato ad “ascoltarla”.
Sicuramente i tempi e i modi di trasmettere contenuti si sono adattati alla situazione pandemica e la cura da parte di chi fa un lavoro radiofonico è stata senza dubbio un elemento fondamentale. Il vero cambiamento, però, è stato determinato da chi ascolta che ha trovato nella radio uno dei pochi luoghi in cui sentirsi ancora comunità. Questo per quanto riguarda la radio intesa nel senso più classico del termine. Poi invece c’è stato tutto un modo di guardare al formato radiofonico, e in più in generale ai prodotti audio, come a qualcosa di nuovo e unico per arrivare alle persone. Questo ha portato a dei tentativi ben riusciti e ad altri meno riusciti.
Siamo arrivati a chi durante la pandemia ha fatto laboratori radiofonici senza aver mai fatto un giorno di radio nella vita. Alla creazione di nuove radio senza avere all’interno del gruppo di lavoro una sola persona che si occupasse di radio e che adesso sono diventate radio morte. A bandi che sono stati vinti da gente che insegna a fare i podcast senza sapere nemmeno che cos’è un podcast. A chi usa la radio per narrare il proprio ego.
Tu lavori fondamentalmente da sola: realizzi interviste, ti muovi intrecciando relazioni con gli artisti, con vari festival, con il pubblico e, aggiungo, con grande professionalità. Ma quanto impegno richiede tutto questo?
Ti ringrazio.
L’impegno richiesto è totale. Il lavoro da fare è tanto. Ho scelto di andare in una direzione contraria rispetto a quella che comunemente si percorre nel settore culturale. Ne sono consapevole. Cerco di condividere questo modo di procedere con tutte le realtà con le quali collaboro.
Mi scrivono molte persone che hanno esperienza nel settore per chiedermi di collaborare anche senza essere pagati ma io continuo a rifiutare. Mi farebbe piacere avere redattori e redattrici per seguire eventi da più luoghi geografici, realizzare contenuti, fare audio recensioni, fare editing, seguire i social, rispondere alle tante mail, fare condivisioni che vogliono dire visibilità. Visibilità che purtroppo vuol dire lavoro.
Non siamo abituati a pensare al settore culturale come a un settore che può e deve produrre lavoro perché di solito siamo costretti a tutelarlo. Non sarò certo io a fare la rivoluzione ma se penso che il lavoro vada pagato lo devo pensare innanzitutto per quello che mi riguarda.
Diversa è la questione relativa alla possibilità di formare da zero delle persone che collaborano in cambio di quella formazione.
Chiaramente se fai una scelta di questo tipo te ne devi assumere la responsabilità.
Questo vuol dire che se sei stanca lavori lo stesso, se c’è la pandemia e hai mesi di crisi, come è successo, ti devi gestire da sola.
Ovviamente, poi, ci sono tante soddisfazioni e per fortuna con tutte le realtà con le quali collaboro c’è la possibilità di un confronto continuo pur mantenendo sempre la libertà di agire salvaguardando l’aspetto autoriale che per me è fondamentale.
Sarò un po’ provocatoria, ma questo è il mio il lavoro: quello di chi cerca di comprendere e di indagare la realtà dei fatti. Sei riuscita a costruire una rete con alcune Istituzioni e Teatri? E se no, da cosa dipende secondo te?
Si, ci sono riuscita con alcune realtà ma la domanda è complessa e devo dire alcune cose che sono frutto della mia esperienza.
Faccio una premessa: Roma è una città complicata da molti punti di vista compreso quello del lavoro culturale. Questo si vede immediatamente dal fatto che quando succede qualcosa a Roma, prima ci sono gli schieramenti, poi forse, i ragionamenti. C’è tanta bella narrazione della parte pubblica che non corrisponde spesso alla parte privata che viene fuori quando ti ci relazioni. A volte manca il coraggio di dire quello che si pensa davvero perché esporsi si porta dietro delle conseguenze.
C’è la tendenza a pensare che quel che riguarda se stessi, i propri riferimenti, la propria parte politica si muova sempre nel giusto. Ci si scambia visibilità più o meno sempre tra gli stessi e quindi non c’è possibilità esterna di critica o di riflessione.
Per quanto mi riguarda, ci sono festival ed eventi romani che non racconto per scelta perché ho avuto modo di avere a che fare con chi li cura e ho visto cose che non mi sono piaciute. Non me le hanno raccontate. Le ho viste. Si va dal non sai chi sono io all’ intimare all’ufficio stampa di non invitare più quel determinato critico perché non piacciono le sue recensioni.
Ci sono state persone che ho sostenuto nei loro progetti e che mi hanno ripagata in un modo veramente spiacevole. Alcune delle realtà che ho sempre raccontato che mi hanno mostrato il loro lato snob.
Se esistesse la semplice reciprocità che per me è una cosa importante tanto nella vita quanto nella professione, considerato tutto il lavoro fatto in questi anni, non dovrei avere nessun problema di sorta.
Negli ultimi sei anni ho fatto varie proposte. Nessuno mi ha mai detto che non fossero valide. Anzi. Mi hanno sempre fatto grandi complimenti. Poi ho già avuto la mia brutta esperienza con il teatro pubblico e mi è bastata anche se devo dire la verità per certi versi è stato meglio così.
Per quanto riguarda poi le collaborazioni radiofoniche, spessissimo vengono attivate per motivi che non hanno nulla a che fare con l’esperienza o con la competenza. Mi pare sia sotto gli occhi di tutti.
Poi chiaramente il tuo lavoro può non piacere. Una cosa più che lecita.
Non è facile costruire una relazione con le realtà istituzionali e i teatri perché, qui mi devo ripetere, spesso vale di più il potere mediatico che hai rispetto a quello che proponi.
Questa narrazione che spesso viene fatta del se ti impegni tanto ce la fai andrebbe smantellata pezzo per pezzo. Cosa ti si richiede per “farcela”? Perché devo fare i salti mortali per poter fare un lavoro per il quale mi sono formata per anni? Ogni tanto mi chiedono di inventarmi un progettino di due righe in due minuti e però fare una cosa diversa, eccezionale, esclusiva. Allora se non faccio cose eccezionali o esclusive ed è evidente che io non le faccia, non ho il diritto di lavorare? A volte mi sembra che ci piaccia essere una moltitudine di solitudini, ognuno con il suo piccolo o grande spazio, come se fossimo sempre dentro a una lotta. E questo non è cambiato durante questi mesi anzi trovo che si sia rafforzato come aspetto.
Ho cercato tanto di relazionarmi con alcune realtà di questa città. Per anni. Tanto che a volte penso che se non avessi perso tempo ad aspettare le risposte di alcune persone, Radio Frammenti sarebbe nata cinque anni fa e forse adesso sarebbe più vicina a quello che vorrei, ma va bene lo stesso.
Dovremmo tutti riflettere ancora una volta sul fatto che non siamo stati indispensabili per nessuno in questi mesi.
La gente ha vissuto facendo a meno della cultura e non è scesa in piazza per protestare. Quelli che sono andati in piazza a protestare per lo più sono del settore. Ho fatto delle interviste in merito perché ero e sono interessata alla tutela del lavoro artistico.
Però non ho potuto fare a meno di domandarmi chi fosse interessato alla tutela del mio.
Nonostante tutto questo si può e si deve cercare sempre un’altra strada. Sono felice delle collaborazioni che ho in atto di cui ti ho parlato prima.
Cerco di lavorare con quelle che mi sembrano persone per bene, che hanno a cuore rispetto e tutela. A volte sbaglio valutazione. Mi pare umano. Ho imparato a gestire la frustrazione e a parlare a tante orecchie diverse. Alcune hanno voglia di ascoltare. Ci sono ancora molte cose che voglio provare a fare.
Mi sono formata, ho lavorato e lavoro tanto. Non sfrutto nessuno. Ho investito i miei soldi. Cerco di non essere scorretta e faccio errori come tutti. Su altri poteri non ho e non voglio avere potere.
Cosa ti porti dietro da questo anno così difficile?
Mi porto dietro tutti gli incontri fatti e quelli mancati.
La fatica di lavorare nei festival con la mascherina sempre addosso. L’editing che ti fa sentire costantemente il respiro affannato. La paura di non farcela. Gli occhi della danzatrice Barbara Carulli che ha fatto la sua prima intervista con me. Le parole di tanti ragazzi e ragazze che ho avuto modo di incontrare virtualmente in alcune scuole o attraverso interviste. Un laboratorio di danza urbana fatto all’interno di TenDance che mi ha fatto scoprire tante cose e tante persone.
Le chiacchierate con alcune direzioni artistiche e l’invito ai loro festival. Essere stata con Radio Frammenti a Primavera dei Teatri in Calabria, la terra dove sono cresciuta. Le prove microfono con mia mamma.
Ma più di ogni altra cosa mi porto l’idea che la fatica che sento ininterrottamente serva a costruirmi uno spazio in cui poter stare ancor prima di poter lavorare e dove prendermi cura anche della mia fallibilità.
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