«Da fantasmi facciamo il lavoro sporco che i vivi non possono o non vogliono fare».
È difficile dire se questa frase appartenga a One, il protagonista di 6 Underground interpretato da Ryan Reynolds o al regista del film Michael Bay. Se dovessimo dire chi, in questi ultimi venticinque anni di cinema americano, ha fatto il lavoro più sporco in assoluto, la scelta ricadrebbe certamente su di lui. Provate a chiedere in giro: persino il vostro amico che non va troppo al cinema saprà certamente che si tratta del regista che riempie i film di esplosioni titaniche, patriottismo sfrenato e pubblicità occulta senza vergogna. Sarebbe difficile trovare una figura che meglio rappresenti la scorrettezza estetica e politica al tempo stesso. Battutacce, macchiette fuori luogo, umorismo scontato e di cattivo gusto sono sempre andati di pari passo con la potente celebrazione del militarismo statunitense nella sua carica individualistica. Il tutto emerge in un ammasso stiloso di superfici lucide, infinite scene d’azione girate al tramonto della “golden hour”, effetti speciali ipertrofici che si gonfiano fino alla deflagrazione. Nel finale, una catarsi che non scarica niente, se non un altro discorso retorico sulle nostre spalle.
6 Underground non fa eccezione. Due ore d’azione dedicate a un gruppo di killer americani con un unico scopo: togliere di mezzo i cattivi più marci della terra, missione che nessuno ha il coraggio di portare a termine. Un lavoro sporco, dicevamo. Ma la condizione per poterlo fare è la più semplice e radicale: inscenare la propria morte, sparire dalla faccia della terra, anche per amici e parenti. Soltanto questo troncherà ogni legame, spazzerà via i limiti, permettendo di agire dove nessun altro osa. La retorica dell’eroe che esce dall’ordinario e diventa l’eccezione, non toccata dalle debolezze delle persone normali, era già un tema forte ne Il cavaliere oscuro, non a caso citato nella scena della Hong Kong che fu anche del film di Batman. Questi uomini divenuti fantasmi avranno il potere di «tormentare i vivi per ciò che hanno fatto». Ecco il punto di partenza per una trama che consisterà nel togliere di mezzo uno dei pericolosi bersagli del gruppo, in una successione di sequenze adrenaliniche.
Nella carriera del regista non sono mancati altri esempi di personaggi esclusi, di quei “Maverick” che uscivano dagli schemi per risolvere la situazione. Il titolo del suo fortunato primo film va già in questa direzione: Bad Boys, la storia di due poliziotti poco eleganti che combattono il traffico di droga a suon di stereotipi afro-americani. In The Rock, i tre protagonisti sono tutti fuori dal coro: un ex-veterano pieno di rancore, uno specialista di armi chimiche che non c’entra nulla con l’FBI, un criminale che viene scarcerato per aiutare gli sbirri. Non possiamo non pensare poi agli operai della Rust Belt di Armageddon mandati nello spazio con soli dodici giorni di addestramento per salvare il mondo, in cambio, tra le altre cose, di un’eterna esenzione fiscale. Quando in 6 Underground ritorna la battuta «niente più tasse (una volta morti)», il sogno thoreauiano dell’uomo (non-)comune che non deve nulla alla moltitudine informe è ancora saldamente in piedi.
Il mito di Michael Bay è questo individuo isolato, nel deserto della cultura pop e dei marchi registrati. Ma almeno lui lo sa. Tanto da diventare egli stesso quest’individuo. Come i personaggi dei suoi film, Bay si isola ai margini, stavolta non della vita, ma della cinematografia hollywoodiana. La sua presenza è come un fantasma che «dà il tormento» a noi spettatori, occupati a organizzare rassegne sui fratelli Coen e Wes Anderson, in attesa del prossimo film di Tarantino. Da questa posizione di outsider, Bay può permettersi di fare quel lavoro sporco che è il suo cinema, di rilasciarne la carica più disinibita, oltre ogni ipocrisia. Se i protagonisti di 6 Underground hanno «perso la capacità di fingere», anche Bay è stufo di farlo. Nell’inseguimento iniziale fatichiamo a non rimanere stupiti dalla quantità di macchine distrutte e capovolte, dalle sparatorie che stravolgono una Firenze profanata, dalle arrampicate sui tetti in prima o terza persona. La violenza gratuita non è mai stata così elaborata e oltraggiosa nel suo cinema: teste esplose, lame magnetiche che penetrano corpi, proiettili che bucano sigari, gente buttata di peso da grattacieli. Eppure come fa a girare tutto così bene? Perché la prima corsa in macchina è la più esaltante dai tempi di Matrix Reloaded? O la scena dello yacht magnetico il set piece più dinamico dal grattacielo inclinato e scivoloso in Transformers 3? Perché il divertimento smette di essere un mezzo, e diventa il fine raggiunto dal nuovo spazio aperto. «La solitudine dà libertà. La libertà di andare dove vuoi. Fare quello che vuoi». Qualcuno ha scritto che con 6 Underground sembra di essere tornati indietro a un certo cinema degli anni 2000. Diamo sentitamente il nostro assenso, ma non consideriamo la classificazione un insulto.
Michael Bay si ritrova più vicino ai film di quindici anni fa perché tutto, nella costruzione scenica, mira alla gratuità dello spettacolo: la musica che carica al momento giusto, l’inquadratura aerea che dà una dimensione epica, la concitazione di una ripresa caotica. C’è un’attenzione particolare all’immagine in movimento come mezzo per intrattenere. I primi venti minuti del film sono un tributo a Tony Scott: il montaggio rapido e convulso con cui si apre la missione è una successione di flash, capelli e sangue che non può non ricordare l’interrogatorio di Domino. Quando il personaggio Seven ripensa al proprio oscuro passato in Afghanistan, si gingilla con la pistola e il proiettile come Denzel Washington in Man on Fire. Infine, il suo trip sfocia in una ripresa con la hand-crank camera che fa sdoppiare l’immagine, in una realtà aumentata che è la crisi personale dell’ex-soldato, come fu la crisi psicologica del bodyguard nel film del 2004. I flashback e lo sfasamento della linea temporale della prima metà del film (la più riuscita) sono un ulteriore sforzo verso questo modo di girare, estraneo a messaggi e narrative convenzionali, che era la trascrizione del cinéma pur nel cuore di una Hollywood che rimaneva commerciale. Con le sue citazioni a questi film, ai Mission Impossible, a Batman, 6 Underground non strizza l’occhio né fa una parodia: si mostra semplicemente come interno a questo filone. Si dichiara veramente per quello che è: un film di spettacolo americano da popcorn, eccessivo ma libero. E per questa ragione ci è piaciuto. Potremo formarci un nuovo gusto? I capitoli che certamente seguiranno a 6 Underground continueranno a darci una risposta. Se il prezzo da pagare è un bonus da Pepsi o Lavazza, ognuno farà i suoi conti.