Ciò che magicamente scaturisce nel pubblico, sin dalla prima scena, è una sorta di familiarità visiva. O meglio, una naturale adesione a quel codice teatrale limpido, semplice, scevro di orpelli e segni superflui cui Peter Brook ci ha abituati da sempre. Immediatamente dopo, arriva la carezza della lingua. Anch’essa asciutta, cristallina, essenziale. Eppure tanto densa da costituire essa stessa una sua scenografia interiore: una strada maestra cui affidarsi – cui aderire, appunto – per meglio comprendere il senso di questo Tempest Project che, ultimo lavoro del grande regista anglo-francese e di Marie-Hélène Estienne, era già arrivato in Italia alla fine del 2021 ed è stato riproposto nei giorni scorsi dal Romaeuropa Festival quale omaggio postumo ad uno dei maggiori maestri del teatro contemporaneo, scomparso il 2 luglio del 2022 a 97 anni.
Da un lato, dunque, il nitore di una regia costruita, come sempre negli allestimenti di Brook, su un arioso “s-vuotamento” dello spazio e del dispositivo scenico: due panche di legno povero, un tappeto, bastoni che animano poteri magici, costumi nei colori della terra, scarsi cambi di luce, qualche inserto musicale accolgono il puntuale lavoro attoriale degli interpreti, lasciando libera l’immaginazione degli spettatori. Dall’altro, la potenza di Shakespeare: il misterioso mondo drammaturgico di quella Tempesta che il regista ha affrontato diverse volte nella sua lunga e straordinaria carriera (basti ricordare la celebre messinscena debuttata al Théâtre des Bouffes du Nord nel 1990) e che qui prende la forma di una partitura quasi inedita: rispettosa certamente del testo originale ma, al contempo, ridotta ai suoi tratti salienti, ad un nodo poetico tutto avvolto intorno a due temi centrali immensi: il tema della libertà e il tema del perdono. Partitura poi rigorosamente tradotta e recitata in francese, in una tessitura vocale lontana dal ritmo originario eppure attraversata da una musicalità nuova, che risarcisce la mancanza della lingua madre con una levità a tratti persino salmodiante.
La ricerca di Brook ed Estienne dentro le viscere del testo ci conduce così ad una visione estremamente moderna dell’opera. Moderna ed insieme materica, concreta, realistica. D’altronde, basti rileggere le illuminanti pagine che il maestro dedica a Shakespeare nel suo Il punto in movimento, in particolare il capitolo “Cos’è uno Shakespeare?”, per capire come questo approdo scenico della Tempesta sia semplicemente l’esito di una riflessione pluridecennale sul repertorio del Bardo. «Per secoli» – scrive il regista – «il nostro modo di comprendere Shakespeare con la pratica scenica è stato bloccato dalla falsa nozione che egli avesse scritto storie inverosimili che abbelliva con tocchi di genio. Troppo a lungo abbiamo suddiviso Shakespeare in compartimenti stagni, separando la storia dai personaggi, il vero dalla filosofia. Oggi cominciamo a riconoscere che egli forgiò uno stile che precorse e precorre tutti i tempi e che gli permise di creare, avvalendosi di un uso superbo e consapevole di numerosi strumenti, un’immagine realistica della vita e di concentrarla in un tempo molto conciso».
Ed è proprio questa declinazione anti-idealista, lontana da atmosfere visionarie e peripezie sulfuree a caratterizzare l’anima di Tempest Project: l’intenso Ery Nzaramba (attore ruandese già nel cast di Battlefield, 2016) ha una potenza espressiva priva di enfasi che ben restituisce un Prospero molto terreno, concreto, diretto. Il suo eloquio chiaro e deciso apre il lavoro mantenendo la solidità di un dire quasi quotidiano pure quando egli, notoriamente avvezzo alle pratiche magiche più incredibili, dispone la tempesta con cui si compirà la sua vendetta ai danni del fratello usurpatore. Anzi, nel momento in cui Ery/Prospero appare sul grande palcoscenico della Sala Petrassi – abito monacale lungo e sciarpa al collo – il naufragio è già in atto. La sua vita sta già cambiando. Così come sta cambiando quella del suo alter-ego/servitore Ariel, spirito aereo, spirituale ribelle che qui trova in Jared McNeill (per decenni collaboratore di Brook anche in qualità di assistente) una fisionomia scenica altrettanto concreta e realistica. I due sono quasi uno lo specchio dell’altro, tanto che Ariel pone subito al centro della sua relazione con il “padrone” l’agognato premio: la libertà.
La libertà è l’idea rilevante del testo, la sua principale linfa d’azione. Perché, a ben vedere, nessuno dei personaggi è libero all’inizio dei fatti. Non è libero Prospero, recluso su un’isola da anni e vittima del suo stesso rancore per i torti subiti in passato. Non è libera Miranda, l’ingenua figlia (Paula Luna), ignara delle cose del mondo. Non è libero Calibano, il selvaggio uomo-bestia vissuto lontano dalla civiltà: figura assai significativa in questo allestimento e affidata all’ottimo Sylvain Levitte, che si divide magistralmente tra la linea espressiva bassa e rude dello schiavo e la levità lirica del giovane Ferdinando, naufragato a seguito della tempesta e destinato ad innamorarsi, ricambiato, della giovane ragazza. Ma non sono liberi neppure i due personaggi buffoneschi della trama, quei Trinculo e Stefano arrivati a Shakespeare dalla Commedia dell’Arte italiana e qui interpretati da una coppia di gemelli, Fabio e Luca Maniglio, davvero efficaci nella loro complementarità scenica, nella loro freschezza espressiva e, tanto più, nella loro vivace spontaneità di vittime – inconsapevoli – della Storia.
Tuttavia, non è sul tema coloniale (assai cocente ai tempi dell’autore), sul contrasto tra civile e incivile, progresso e selvatichezza, che Brook punta il dito. Semmai, sul mistero della storia (quella di chiunque), della vita, delle relazioni, del destino. E tanto più sul valore “curativo” della poesia e del teatro. Mentre i fatti si dipanano (il naufragio è andato a buon fine ma nessuno ha perso nemmeno un capello), mentre Miranda e Ferdinando scoprono l’Amore, mentre il passato viene rivelato nei suoi dettagli celati per anni, mentre le recriminazioni di Calibano si fanno sempre più esplicite e mentre la magia di Prospero, unica alternativa al male del mondo, depone le sue armi, si fa infatti strada, con lieve energia, l’idea che solo la Poesia possa redimere le colpe e aggiustare le storture del caso.
E se a tratti, nel corso dello spettacolo, si è avvertito uno scricchiolìo nella compattezza dell’insieme, la scena finale arriva prodigiosa a farcene dimenticare. Luci alte in sala. Prospero perdona i suoi aguzzini. Attore e personaggio abbracciano idealmente il pubblico. La finzione si rompe. E allora viene da pensare che questa riscrittura da Shakespeare (il testo del lavoro, adattato dalla versione francese di The Tempest di William Shakespeare di Jean-Claude Carrière, è stato pubblicato il 4 novembre 2020 da Actes Sud-Papiers) ci voglia essenzialmente e ancora una volta ricordare come, dal palcoscenico-mondo del teatro, sia l’Arte il vero, solido, gancio cui l’umanità possa aggrapparsi per sentirsi realmente libera. Su questo gancio si appendono valori che uniscono, idee che legano culture e cuori, che annullano le barriere tra colonizzatori e colonizzati, schiavi e padroni. L’arte, di cui la magia è la massima espressione, permette a Prospero di perdonare. E non è forse proprio il perdono il dono più grande che l’uomo possa fare a se stesso?
Tempest Project
adattamento e messa in scena Peter Brook e Marie-Hélène Estienne
uno spettacolo nato da una ricerca su La Tempesta di William Shakespeare
con Sylvain Levitte, Paula Luna, Fabio Maniglio, Luca Maniglio, Jared McNeill, Ery Nzaramba
luci Philippe Vialatte
canzoni Harue Momoyama
produzione Centre International de Créations Théâtrales / Théâtre des Bouffes du Nord
coproduzioneThéâtre Gérard Philipe, centre dramatique national de Saint-Denis; Scène nationale Carré-Colonnes Bordeaux Métropole; Le Théâtre de Saint-Quentin-en-Yvelines – Scène Nationale; Le Carreau – Scène nationale de Forbach et dell’Est mosellan; Teatro Stabile del Veneto; Cercle des partenaires des Bouffes du Nord.
Romaeuropa Festival, Auditorium Parco della Musica, Sala Petrassi, Roma, dal 26 settembre al 1° ottobre 2023.