“Fedra, Ippolito portatore di corona”: una tragedia contemporanea di Alessandra Bernocco

Foto di Maria Pia Ballarino

Innanzitutto, una domanda. Perché quando si mette in scena Ippolito portatore di corona di Euripide lo si intitola Fedra? Me lo ero domandato (ma tra me e me) quando Carmelo Rifici aveva diretto Elisabetta Pozzi e mi ero risposta (sempre tra me e me) che fosse la prima attrice, il ruolo e l’autorevolezza, intendo, di prima attrice, a richiederlo. Ma adesso che il ruolo è affidato ad Alessandra Salamida, attrice di grande talento e ampia cultura, ma non ancora assurta all’Olimpo del mainstream, non so cosa rispondermi. C’è proprio bisogno di attrarre il pubblico con un titolo quasi civetta o quale ragione induce ad anteporre al titolo originale euripideo, Ippolito coronato, appunto, quello della matrigna che lo ha amato senza colpa?
Grande tragedia, amare senza colpa, amare non amata, amare in silenzio. Portando e scontando il peso di un anatema lanciato da una Dea capricciosa a un destinatario che non sei nemmeno tu.
Ma questa tragedia è tragedia di tutti, nessuno escluso. E richiede attori capaci di assumersene il carico anche individuale. Ciascuno vive la sua propria endemica tragedia che va oltre ogni relazione annunciata. E a ciascuno si richiede la fibra e la temperatura adeguata.
Un cast di ottimo livello mi è parso il punto di forza di questo allestimento firmato da Paul Curran, regista scozzese, per il Teatro Greco di Siracusa, cinquantanovesima stagione dell’Inda, riproposto al Teatro Grande di Pompei per la settima edizione di Pompeii Theatrum Mundi, organizzata dal Teatro Nazionale di Napoli e dal Parco Archeologico di Pompei, e in programma al Teatro Romano di Verona l’11 e il 12 settembre prossimi.
Qui la potenza del mito interloquisce più ancora di incombere sui caratteri dei personaggi, intimamente dilacerati, tormentati da un dolore compresso, come Fedra, oppure impotenti e tuttavia intenzionati a medicare, come la nutrice di Gaia Aprea, spregiudicata e moderna, animata da quel sentimento che oggi chiameremmo frustrazione: per non essere ascoltata, compresa, seguita, lei e le sue nobili cause, perse in partenza. Frustrazione: un termine che poco si addice alla tragedia greca, molto più consono al dramma borghese, ai tormenti di donne e uomini della porta accanto, traditi, annientati, illusi. Eppure.  Eppure, gli Dei sono umani, sono tra noi e tra noi agiscono e interferiscono, tramano a vista, mettono in guardia, rivelano e correggono il tiro. Gli umani invece non appaiono agiti o eterodiretti da forze sovrastanti ma agitati da un demone interiore, personaggi che somatizzano e portano i segni del proprio malessere.

Foto di Maria Pia Ballarino

A un’Afrodite (Ilaria Genatiempo) che scende le scale come una seduttiva mannequin, spacco che sfiora il girovita e scopre a ogni passo le gambe infinite, risponde una Fedra carnale che avanza barcollante, in preda a un delirio che a tratti si illumina di autocoscienza, quasi un’Agave che nel leone riconosce la testa del figlio.  Al solo suono del nome di Ippolito, appena pronunciato dalla nutrice, ecco un urlo di partoriente che guarda in faccia il suo sentimento e lo frammenta in parole lasciate sospese, estorte da chi è chiamata a prendersi cura di lei. Ma è in buona fede, la nutrice interpretata con fortissima tempra da Gaia Aprea? L’attrice sostiene di sì e tifa per lei perché tifare per lei significa anche tifare per Fedra, significa accogliere e forse demandare al giovane corpo della donna regina, una pulsione vitalistica che molto la riguarda («Per amore tu vorresti rinunciare alla vita?»).
Il rapporto stretto tra queste due donne, questa regina e questa nutrice, appare quasi frontale, non già materno né assimilabile a quello debordante di una canonica balia da teatro elisabettiano. Qui a debordare è la vitalità castigata in un corpo composto, nervoso, vestito di scuro, che travasa il suo istinto di vita nella donna che le è più vicina, incapace di accoglierlo.
L’onore o, meglio, il disonore, porta Fedra al suicidio, e un sentimento umanissimo che chiamiamo vergogna. La stessa vergogna per cui esorta le ancelle al silenzio, prima di compiere l’ultimo atto.  Prima che il segreto violato di un amore malato cerchi il suo contrappasso incolpando colui che non si può più difendere. Ippolito, il protetto di Artemide dedito ai cavalli, alla natura e alla caccia, interpretato da un esuberante Riccardo Livermore. Un primigenio figlio dei fiori circondato da ninfe inghirlandate e festose che poco hanno presa sulla sua acerba virilità. Il figlio di Re ripudiato dal Re, accusato di una colpa che non gli è dato conoscere, lui, giovane vergine spensierato e convinto che “tenersi lontano dai pericoli sia cosa più amabile che comandare”. Anzi, è a Ippolito, sguarnito dei basilari codici di relazione con l’altro sesso, che Euripide riserva una proverbiale invettiva contro le donne che la brillante traduzione di Nicola Crocetti rende godibilissima e, a giudicare dalle risa del pubblico femminile del Teatro di Pompei, allegramente comica. (“Zeus, perché hai messo al mondo le donne se anche un padre pur di liberarsene le correda di dote?”).

Foto di Maria Pia Ballarino

A Teseo è invece dato il ruolo maggiormente gravato da emozioni mutevoli, che Alessandro Albertin attraversa con gran sicurezza, dominando i picchi tragici e le cadute, persino maneggiando senza tradire imbarazzo un’inutile pistola che proprio non si capisce cosa diamine c’entri. Poco male perché the show must go on e tant’è, anche grazie a un linguaggio semplice, fluente, che arriva diretto ed è un po’ la cifra della traduzione.
Della quale molto beneficia l’Artemide di Margherita Di Rauso, Dea ex machina vestita di un peplo rosso sangue meraviglioso, che rappresenta la resa dei conti, la verità rivelata dietro inganni, censure e menzogne, sorta di tribunale che in terra giudica gli uomini per diritto divino perché “è normale che gli Dei sbaglino, se solo lo vogliono”.
Gli uomini invece pagano il prezzo. Per avere dato retta alle voci di sopra o di dentro, per aver gridato con loro o per averle ignorate, silenziate, punite.
Non resta che arrendersi di fronte a coloro che non abbiamo capito, a cui non abbiamo creduto. Ai condannati dal pregiudizio e dall’ira, a chi fallisce e non ce la fa. Non resta che accogliere, in una resa finale e definitiva, colui a cui chiediamo pietà.
È l’ultimo quadro, che non si chiude con la battuta del Coro ma con Ippolito insanguinato tra le braccia del padre, pietà tragica in corpo di Re che rivolto ad Atena piange il proprio figlio.
Del cast fanno parte il bravo Marcello Gravina, messaggero dalla giusta temperatura tragica e Sergio Mancinelli, consono e adeguatamente comico nel ruolo di un servo.

Foto di Maria Pia Ballarino

Il Coro delle ancelle formato da Simonetta Cartia, Giada Lorusso, Elena Polic Greco e Maria Grazia Solano, rappresenta lo zoccolo duro dell’Inda su cui si va sempre sicuri, mentre le donne di Trezene sono Valentina Corrao, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentin, Alba Sofia Vella.
La scena, sostanzialmente scarna, stilizzata, mossa da coreografie minime ma puntuali, investe su un enorme volto di donna Dea di grande impatto, sul quale vengono proiettati effetti video.

Fedra, Ippolito portatore di corona

di Euripide
traduzione Nicola Crocetti
regia Paul Curran
assistente alla regia Michele Dell’Utri
scene e costumi Gary McCann
assistente scenografo Gloria Bolchini
assistente costumista Gabriella Ingram
direzione del Coro Francesca Della Monica
responsabile del Coro Elena Polic Greco
musiche Coro inziale Matthew Barnes
musiche spettacolo Ernani Maletta
disegnatore luci Nicolas Bovey
video design Leandro Summo
drammaturgo Francesco Morosi
assistente drammaturgo Aurora Trovatello
assistente alla compagnia Riccardo Rizzo
direttore di scena Dario Castro, Eleonora Sabatini
cast, in ordine di apparizione
Afrodite Ilaria Genatiempo
Ippolito Riccardo Livermore
Un servo Sergio Mancinelli
Nutrice Gaia Aprea
Fedra Alessandra Salamida
Teseo Alessandro Albertin
Messaggero Marcello Gravina
Artemide Giovanna Di Rauso
Corifee Simonetta Cartia, Giada Lorusso, Elena Polic Greco, Maria Grazia Solano
Coro di donne Trezene Valentina Corrao, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentin, Alba Sofia Vella.
Accademia d’Arte del Dramma Antico
Coro:
Caterina Alinari, Allegra Azzurro, Andrea Bassoli, Claudia Bellia, Carla Bongiovanni, Clara Borghesi, Davide Carella, Carlotta Ceci, Federica Clementi, Alessandra Cosentino, Sara De Lauretis, Ludovica Garofani, Enrica Graziano, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Salvatore Mancuso, Carlo Marrubini Bouland, Arianna Martinelli, Riccardo Massone, Linda Morando, Giuseppe Oricchio, Davide Pandalone, Carloandrea Pecori Donizetti, Alice Pennino, Francesco Ruggiero, Daniele Sardelli, Flavio Tomasello, Elisa Zucchetti
Produzione Teatro INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico.

Pompeii Theatrum Mundi, Teatro Grande Pompei, dall’11 al 13 luglio 2024.

Prossima data:
Teatro Romano di Verona, Verona, 11 e 12 settembre 2024.