Di Josep Maria Miró, drammaturgo catalano, classe 1977, si sente parlare da qualche anno anche in Italia. Forse “galeotto fu” il Progetto WRITE, la residenza creativa di autori per il teatro di ogni nazionalità nella siciliana Mandanici, al quale Miró prese parte tra gli altri, o forse merito del fiuto di Angelo Savelli e Giancarlo Mordini – il primo regista, il secondo direttore artistico – del Teatro di Rifredi di Firenze, dove uno dei suoi testi più riusciti, Il principio di Archimede, debuttò un anno fa nella traduzione italiana dello stesso Savelli.
Qui nel quartiere Rifredi siamo ritornati il 2 marzo, per incontrare nuovamente la scrittura di Miró. Abbiamo raggiunto il teatro comodamente grazie alla nuova linea tranviaria T1 che parte dalla stazione Santa Maria Novella. Stavolta a curare l’allestimento non è stato Savelli, che ne ha sempre curato la traduzione, ma Mario Gelardi, che proprio con la regia di Nerium Park di Josep Maria Miró firma il primo spettacolo prodotto dal Nuovo Teatro Sanità. Nella città toscana non abbiamo soltanto colto la possibilità di partecipare alla visione del lavoro, interpretato dai napoletani Chiara Baffi – Premio Ubu – Miglior Attrice Under 30 e Premio Eleonora Duse – Miglior Attrice Emergente – e Alessandro Palladino, attore di formazione teatrale tra i protagonisti di Gomorra e del film Due soldati di Marco Tullio Giordana; ci siamo ritrovati testimoni di un tempo intimo, quasi (giustamente) celebrativo dell’opera di questo autore, riservandoci uno spazio di riflessione condivisa, calorosa e istantanea insieme ad alcuni degli attori protagonisti della produzione realizzata l’anno scorso. Molti sono stati gli spettatori, infatti, che negli ultimi due anni hanno potuto apprezzare la qualità e la scottante attualità dell’immaginario profuso nelle opere di Miró, del quale è stata pubblicata in italiano da CUE Press – casa editrice sempre “sul pezzo”, attenta al contemporaneo emergente europeo – la raccolta di quattro testi: oltre ai già citati Il principio di Archimede e Nerium Park, Dimentichiamoci di essere turisti e Tempi selvaggi. Non ha un metodo, Josep Maria Miró, se non quello di scegliere un tema qualsiasi e arrivare al cuore degli argomenti attraverso un percorso drammaturgico. Così spiegava, alla presentazione del suo volume – semplicemente intitolato Teatro –, organizzata in collaborazione con la Fondazione Teatro della Toscana e introdotta da Xavier Albertì, direttore del Teatro Nazionale di Catalogna e Daniele Corsi, professore di Lingua e Traduzione Spagnola all’Università per Stranieri di Siena. All’incontro è stato presente anche l’editore Mattia Visani, oltre, ovviamente, ai registi italiani Angelo Savelli e Mario Gelardi che si sono confrontati con la parola di Miró.
Una parola non soltanto drammatica, e dunque portatrice di azione, quella di Josep Maria Miró, ma anche in grado di restituire alla scena, attraverso la successione di fonemi, un ritmo serrato, dinamico, analogo al campo-controcampo cinematografico. Ed effettivamente molto possiede di cinematografico Il principio di Archimede, con il suo montaggio non cronologico, e i suoi aspetti da “thriller” (e un film richiama alla mente, per la delicatezza con cui approccia il tema della paura della pedofilia, Il sospetto di Thomas Vinterberg); o una sorta di noir come Nerium Park, pure accostabile nella struttura, se vogliamo, a una “sequenza a episodi” che narra l’evoluzione di un legame affettivo.
La parola è uno strumento essenziale e asciutto per il drammaturgo catalano, ma non per questo si resta indifferenti alle sue sonorità, che, anzi, anche nella traduzione di Savelli emergono vivide e armoniose dallo scambio di battute che sembrano troncarsi, pestarsi i piedi a vicenda, con affermazioni che spesso cominciano dalla ripresa di un verbo o un nome appena pronunciato dall’interlocutore. È quasi una sticomitia antica quella di Gerard e Marta, i protagonisti di Nerium Park: il ritmo si fa concitato, nervoso, vulcanico, e accompagna l’intreccio verso una sorta di catabasi metaforica, una crisi graduale che condurrà verso esiti tragici e paradossali. Non a caso, nei due spettacoli Il principio di Archimede e Nerium Park, entrambi andati in scena anche a Roma (allo Spazio Diamante, nel mese di marzo) a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, i protagonisti sono letteralmente sopraffatti dall’ambiente circostante e dalle parole, generatrici di realtà che non sono visibili, di insinuazioni che non sono confutabili ma che esistono solo ed esclusivamente nel loro essere “pronunciate”. Nel primo dei due lavori, l’opinione comune assurge a vera protagonista della pièce, che si rivolta contro il personaggio di Jordi (vittima o carnefice, non è facile formulare un giudizio per lo spettatore), un giovane (interpretato da Giulio Maria Corso) istruttore di nuoto accusato di pedofilia per aver rassicurato un bambino timoroso di tuffarsi in acqua con “un bacio”, il quale diceva di averlo ricevuto in modo “diverso”, forse sulla bocca. Nel secondo, Nerium Park è il nome della zona residenziale in cui acquista un appartamento, parte di un complesso di recente costruzione fuori dalla cinta urbana, la coppia formata da Marta e Gerard, che vi si trasferisce nonostante fino a quel momento siano i primi e anche gli unici ad abitare la zona; i due conserveranno questo primato per molti mesi, un dettaglio che potrebbe sembrare banale e insignificante, e che, invece, assume una potenza fortissima, diventando elemento strutturale e “preludiale” di una condizione “mortale” di isolamento che trasformerà radicalmente il rapporto di coppia, fino al suo sfasciamento e oltre. Il testo è suddiviso in quadri, corrispondenti ai giorni esatti del calendario in cui si svolgono i dialoghi, da novembre a ottobre dell’anno seguente. C’è il tema della convivenza, e della difficoltà che si riscontra quando si devono cercare soluzioni condivisibili da entrambi (con annesso addossamento di colpe a seguire), ma non solo. In Nerium Park subentra all’improvviso un personaggio in absentia, un senzatetto verso cui i due protagonisti nutrono atteggiamenti opposti, di ostilità e di accoglienza. Si scorge tra le pieghe del testo una questione urgente. “La” questione del nostro presente, ovvero, la paura del diverso e dell’emarginato, del “socialmente debole”. La paura. Quella, sì – e non l’altro – che ci trascina verso il collasso.