Possiamo partire dalla fine, con Latini “in exitu” dallo spettacolo, stremato ma non “consunto”, provato ma non sfatto da questo monologo testoriano a più voci dalle molteplici sfumature e anime, scritto nell’ormai lontano 1988, con Franco Branciaroli suo primo grande interprete.
C’è il tratto edipico-psicoanalitico coi riferimenti alla famiglia, c’è quello sociopolitico con un convincente Duce ahimè attualissimo, e c’è quello metateatrale con lo spazio del palco percorso, attraversato, indicato con la voce e con il corpo e la fallica stampella microfono.C’è la Milano di allora, di fine anni Ottanta, che è poi anche la Milano di oggi, coi soldi che piovono dal cielo e il loro straziante costo sociale. C’è una voce che esce dal corpo e che si “fa” corpo, mille voci per un corpo caracollante, inquieto, bucato, implorante pietà, e ostentante ripugnanza. Una voce, quella di Latini-Gino, nome del protagonista, che alla fine si fa sputo, o meglio, si accompagna allo sputo, secrezione di fiato espulso che sta accanto alla parola, ma non la sostituisce. Più consoni risultano certi silenzi con l’attore a vagare perso nello spazio che tuttavia domina con maestria.
Se c’è un difetto di questa strepitosa messa in scena è il suo essere troppo energica, vitale. Ѐ certo, tale energia, una delle anime testoriane del testo più incisive, in cui la lingua è mixata con potente carica espressionistica, un laboratorio sempre in fieri.
Riesce nel miracolo di non essere artificiosa, appena un po’ di più e lo sarebbe stata, ma l’equilibrio difficile da raggiungere è qui da Roberto Latini raggiunto.
Tuttavia, la parola, le parole, il fiato, il corpo malato dentro, bucato, caracollante, è troppo “giovanile” e prestante. L’attore vince la battaglia col testo (di qui la resa finale) ma non vi è alcun segno di una possibile sconfitta. Manca quindi quel senso di sfatto, di marcio, di saliva che esce non come sputo ma perché esso gronda, con lo schifo viscido che si annida dentro; il senso di ciò insomma che può mettere in dubbio l’ostensione e l’ostentazione che l’attore è e fa, piuttosto che la lingua lasciata a macerare, a distruggersi, e di cui non si è padroni ma da cui si è infettati.
Curiosamente la stazione dove si svolge la scena è indicata solo da un binario che sembra, lì davanti, un pezzo di un mega giocattolo; poi il vuoto con materassi a terra e le quinte fatte da veli astratti attraversati da occasionali folate. E poi una rete da tennis. Ancor più curiosamente, nella realtà quotidiana, Nadal aveva vinto il suo dodicesimo torneo del Roland Garros. Lui, il contrario di Gino Riboldi, cioè una macchina perfetta per l’ennesima schiacciante e scontata vittoria. Invece il Gino Riboldi è la pallina presa a racchettate dalla vita, sballottata di qua e di là, sfilacciata, usata e abusata, non come quella lucida e piena messa in scena alla fine. A parte questo spunto, una splendida resa scenica, ricca di sfumature, sottintesi e rimandi.
In exitu
di Giovanni Testori
adattamento, interpretazione e regia Roberto Latini
musica e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
Napoli Teatro Festival, Teatro Nuovo, Napoli 8 e 9 giugno 2019.