La conferenza-spettacolo I fiori del male, o la celebrazione della violenza di Sergio Blanco è composta da ventotto brevi esposizioni sul tema dei rapporti tra violenza e letteratura, seguite da una breve introduzione e un altrettanto snello epilogo. Apparentemente disordinato e frammentario, esso costituisce in realtà una lucida e ricca riflessione che, senza lasciarsi condizionare da alcun tipo di pregiudizio, «annuncia» e racconta la condizione perennemente violenta dell’essere umano, entro la quale nascono le creazioni letterarie e poetiche. Di qui il titolo I fiori del male. La letteratura è come un fiore bello che svetta fragile dalla melma della violenza e dell’orrore, entro cui siamo calati sin dall’alba del mondo e della storia.
Mi pare che siano soprattutto due i punti rilevanti che Sergio Blanco fa emergere con la sua conferenza-spettacolo. Il primo è l’aver confutato la definizione classica del bello come ciò che è in sé proporzionato e armonico. Secondo questa concezione estetica, la bellezza sarebbe totalmente contrapposta all’orrore e scevra da violenza, mentre il piacere estetico che si prova di fronte a un oggetto bello consisterebbe nell’esperienza pura di una forma perfetta, senza ombre, che bandisce da sé il male e il dolore. Gli interventi di Blanco dimostrano, di contro, come questa visione sia troppo ingenua. Da un lato, l’artista argomenta che la bellezza nasce dall’esperienza dell’orrore. Malvagità e bruttezza costituiscono così sia il motore che il sottofondo di ogni creazione. Il bello come ciò che è proporzionato e armonico può anche essere il punto di arrivo della letteratura o di altre arti, ma dietro la superficie cova elementi dissonanti e caotici. Dall’altro, Blanco nega con forza che l’esperienza del bello sia pura da ombre e sofferenza, o meglio sostiene che il piacere estetico derivi dalla contemplazione dell’orrido espresso in una forma letteraria. Senza il male, non sembra vi possa essere alcun fiore e il godimento del suo profumo.
Si può fare un esempio chiarificatore citando parte dell’esposizione n. 21 della conferenza-spettacolo. Prendiamo il caso del corpo di un essere umano smembrato da un veicolo in corsa. Se noi facessimo esperienza di questo evento dal vivo, la reazione spontanea sarebbe negativa. Il sangue e il cervello da cui verremmo ricoperti quando vediamo davanti a noi un bambino investito da un camion ci arrecherebbero solo dolore, spavento o disgusto. Il nostro sguardo volgerebbe allora di scatto la sua direzione altrove. Invece, l’atto di leggere gli alessandrini della Phèdre di Jean Racine che descrivono il corpo di Ippolito mutilato dalle ruote del carro sfuggito al suo controllo crea in noi una “scarica” piacevole e non ci fa distogliere l’attenzione dal contenuto macabro del racconto. Quanto più noi anzi proseguiamo con la lettura, tanto più diventiamo avidi di dettagli e vogliamo vedere con maggior nitidezza questa povera carne martoriata. Per usare le parole di Blanco, accade che «la narrazione della violenza finisce per procurarci un senso di sicurezza personale» e che «ci fa bene poter contemplare l’orrore in un campo di finzione, cioè al di fuori del reale». Tale riflessione è poi chiosata da una citazione dal famoso incipit del libro II del poema De rerum natura (Suave, mari magno…), in cui il poeta Lucrezio canta quanto sia piacevole contemplare dalla quiete della riva i tormenti e gli affanni degli esseri umani che attraversano il mare in tempesta.
Questa concezione del bello non nasce tuttavia dal nulla, dunque almeno da questo punto di vista non è interamente originale. Il riferimento più pertinente da fare sarebbero le poesie de I fiori del male di Baudelaire, a cui Blanco fa ovvio riferimento nel titolo, ma che non cita mai direttamente nella sua conferenza-spettacolo. Già questo poeta toglieva la maschera al suo “lettore ipocrita”, che negava di provare attrazione per l’orrore, mostrandogli quanto invece fosse goloso di cose brutte e violente («È il Diavolo a tirare i nostri fili! / Dai più schifosi oggetti siamo attratti; / e ogni giorno nell’Inferno ci addentriamo d’un passo, / tranquilli attraversando miasmi e buio»). E confessava, nel suo Inno alla Bellezza, di non riuscire a capire se il bello abbia origine infernale o divina, dunque si accontentava di riscontrare come l’esperienza estetica avesse il paradossale effetto di attenuare l’orrore mediante la cognizione dell’orrore, il male attraverso la poesia del male:
Cammini, Bellezza, su morti, e di loro sorridi; / tra i tuoi gioielli l’Orrore non è il meno attraente / e, in mezzo ai tuoi gingilli preferiti, l’Assassinio / danza amorosamente sul tuo ventre orgoglioso. / Abbagliata l’effimera s’abbatte in te candela / e crepita bruciando e la tua fiamma benedice. / Così, chino fremente sul suo amore, chi ama / sembra un moribondo che accarezza la sua tomba. / Che importa che tu venga dall’inferno o dal cielo, / o mostro enorme, ingenuo, spaventoso! / se grazie al tuo sorriso, al tuo sguardo, al tuo piede / penetro un Infinito che ignoravo e che adoro? / Che importa se da Satana o da Dio? se Sirena / o Angelo, che importa? se si fanno per te / – fata occhi-di-velluto, ritmo, luce, profumo, mia regina – / meno orrendo l’universo, meno grevi gli istanti? (Inno alla Bellezza, in C. Baudelaire, Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Milano, Mondadori, 1996).
I nomi e i precedenti storici si potrebbero certo moltiplicare. Quel che conta evidenziare con questa digressione è tuttavia solo il fatto che quanto sostiene Blanco non sia affatto una volgare provocazione, dettata dal gusto gratuito del torbido e del sensazionale. È piuttosto la conclusione razionale che qualunque artista o intellettuale non può che trarre, se ragiona coerentemente e senza pregiudizi sulla natura e sulla genealogia del bello.
Del tutto originale è invece il secondo punto rilevante che, a mio avviso, emerge dalla conferenza-spettacolo I fiori del male. La riflessione di Blanco presenta una definizione di “violenza” che non viene influenzata da qualunque presupposto di carattere morale. Ancora una volta, viene insomma contrapposta una visione complessa a una più ingenua. Secondo il senso comune, la violenza sarebbe una componente bestiale dell’essere umano, che lo rende simile all’animale e gli fa assecondare dei moti aggressivi, spontanei, senza ragione. Questa prospettiva è però smentita dalla capacità tutta umana di dare alla violenza una forma metodica e controllata. Ne sono esempio – per ricordare alcuni riferimenti che Blanco fa nella conferenza-spettacolo – sia i campi di sterminio, sia le orge ben studiate e regolamentate de Le 120 giornate di Sodoma del Marchese de Sade. Inoltre, e cosa ben più importante, Blanco mostra che l’abbandono dei preconcetti morali riveli come la violenza si annidi anche nei fenomeni apparentemente innocenti e costruttivi, inclusa la letteratura. Un’opera letteraria o poetica è violenta anzitutto contro la lingua, in quanto può portare fuori dai binari della comunicazione quotidiana, infrangere le regole della grammatica, sfidare le norme della sintassi, o dare alle parole un significato inconsueto (da qui nascono le metafore e le allegorie). La letteratura si rivolge poi con violenza contro la morale e le certezze condivise. Narrando mondi alternativi, essa ci porta fuori dalla confortevole sicurezza che il nostro è l’unico universo possibile. O ancora, celebrando la violenza in una forma piacevole e catartica, la letteratura mostra come persino nei fenomeni che la morale bollerebbe come inaccettabili si nascondino in realtà componenti positive, che bisogna recuperare e conoscere. Giova qui ricordare l’esposizione n. 15, dove Blanco afferma che la tortura o lo stupro sono certo esecrabili, e tuttavia conducono anche chi è stato torturato e stuprato a una maggiore consapevolezza del proprio corpo. Una vittima del male cresce intellettualmente, diventa più acuta e consapevole. Essa allora apprende dalla sua brutta esperienza che cosa sia un corpo e quali siano le sue risorse più segrete.
Dalla conferenza-spettacolo di Blanco, dunque, diventa possibile ricavare una definizione extra-morale della violenza. “Violento” sarebbe qualsiasi sforzo di spezzare un rapporto consolidato e chiuso, portando a uno scarto rispetto alla situazione di partenza. Il problema non consiste allora tanto nel criticare la violenza, bensì nel trovarle una direzione e un fine che sia sensato, sublimarla – dal momento che è ineliminabile – in qualcosa di amaro ma anche di bello. Lo sforzo compiuto dall’atto violento può indifferentemente portare alla distruzione e alla costruzione, al dolore e al piacere, alla obbedienza alle regole della lingua e al caos della letteratura, all’ignoranza e alla conoscenza. È insomma un “puro neutro”: può essere ogni cosa e il suo contrario, senza mai ridursi a un unico dei tanti poli possibili. Lo sforzo che distingue il poeta dal criminale riguarda allora la sua capacità di far vincere i principi positivi su quelli negativi, di non ricambiare l’orrore con altro orrore e far scaturire dall’orrore, quasi per miracolo, qualcosa che orrendo non è.
Pur concentrandosi nella conferenza-spettacolo sulla letteratura, Blanco esplicita che questo suo discorso si può applicare in generale anche alla religione, alla società, insomma a ogni fenomeno di origine umana. Mi chiedo allora se non si possano estendere i suoi principi fino all’arte del teatro. Anche nell’attore si nasconderebbe, forse, una violenza costruttiva o positiva. Il suo corpo in movimento violenta, ad esempio, le abitudini normali del corpo e gli fa compiere passi, gesti, sguardi che non si riscontrano nei corpi addomesticati della quotidianità. Le sue costruzioni ritmiche sulla scena obbligano tempo e spazio, inoltre, ad assumere una forma inconsueta, forniscono al pigro continuum spazio-temporale un andamento avvincente e sostenuto. Se questo è vero, il concetto di “violenza” non sarebbe troppo dissimile dalla “crudeltà” che Artaud ricercava con il suo teatro e che a sua volta acquista senso se viene interpretata in termini extra-morali. Come infatti Blanco sostiene che sia “violenta” la letteratura che porta il linguaggio e la mente oltre i loro limiti o fuori da rassicuranti regole, così Artaud sosteneva che sia “crudele” il teatro che, grazie a uno sforzo e a una lucidità suprema, porta a un allargamento della vitalità e della conoscenza umana. Vale qui ricordare un estratto da Il teatro e il suo doppio:
Per il teatro come per la cultura, ciò che conta è dare un nome alle ombre e guidarle; il teatro, che non si immobilizza nel linguaggio e nelle forme, non soltanto distrugge le false ombre, ma apre la via ad un’altra nascita d’ombre, intorno alla quale si raccoglie l’autentico spettacolo della vita. Spezzare il linguaggio per raggiungere la vita, significa fare o rifare il teatro; ciò che importa non è credere che questo atto debba rimanere sacro, vale a dire riservato a pochi, bensì credere che non tutti possono compierlo, in quanto esso esige una preparazione. Il che significa rifiutare i consueti limiti dell’uomo e delle sue facoltà, e allargare infinitamente i confini della cosiddetta realtà (Il teatro e il suo doppio, a cura di G.R. Morteo e G. Neri, traduzioni di E. Capriolo e G. Marchi, Torino, Einaudi, 2000, p. 113; il corsivo è mio).
Restando peraltro all’interno de I fiori del male di Blanco, si può anzi supporre che persino la forma della conferenza-spettacolo implichi una costruttiva violenza. Questo genere di espressione violenta la forma spettacolare, obbligandola al controllo razionale, alla precisione nei riferimenti, alla chiarezza e lucidità degli argomenti. Tuttavia, esso usa violenza anche contro la pratica della conferenza, perché distrugge la distanza tra pubblico e parlante ex cathedra, obbligando chi parla a entrare anche in relazione empatica, ritmica ed emotiva con chi ascolta. Si determina così un ibrido che costringe poesia e scienza, che di norma sono estranei e distanti, a farsi amanti, in cui forse può essere trovata anche il teatro – un’energia che, per ragioni ancora in larghissima parte misteriose, cattura l’essere umano nella sua interezza: nel sesso, nel cuore, nell’intelletto.
Molti altri sarebbero gli interessanti spunti che si potrebbero recuperare e approfondire a partire dalla conferenza-spettacolo I fiori del male. Di seguito, mi limito ad accennare tre problemi e piste di ricerca supplementari che il testo di Blanco o non sviluppa, oppure lascia volutamente allo stato di suggestione. La prima è se non sia forse necessario fare una distinzione (di nuovo, di carattere logico e non morale) tra “forza” e “violenza”, per spiegare perché quest’ultima non sia un comportamento bestiale, bensì proprio dell’essere umano. Può darsi che questi due concetti aiutino a restringere il labirinto di ciò che noi definiamo come violento. La “forza” ha forse a che fare con la risposta istintiva a qualcosa, che si dà in natura e si dà quasi senza intelletto. Si pensi alla forza di gravità, o all’animale che, se attaccato, reagisce con una zampata o altre forme di difesa biologica. La “violenza” è invece una modalità spirituale di organizzazione ed espressione, che ha a che fare con l’arte e il raziocinio. Da ciò seguirebbe che l’essere umano è violento perché usa spirito e ragione, nel bene come nel male. Inoltre, ne potrebbe anche discendere che, se è vero che la “violenza” può implicare la “forza”, in quanto si può dare espressione spirituale a un gesto animale (ciò accade, per esempio, quando in letteratura si raccontano le battute di caccia di lupi o altre bestie carnivore), non è altrettanto vero l’inverso, ossia che la “forza” implichi la “violenza”.
La seconda questione riguarda il problema se non ci sia in realtà un modo di uscire dallo stato di violenza, anche sublimata e positiva. Nella sua esposizione n. 7, infatti, Blanco racconta di come un’operazione agli occhi lo costrinse un giorno ad avere la vista offuscata. Durante questo periodo, tutto quanto gli cadeva sotto gli occhi appariva vago, confuso, indefinito, in altri termini ogni cosa finiva per perdere i propri confini e la sua mente cadeva in uno stato di quiete della percezione. Blanco fa poi in margine a questo racconto una considerazione acuta: «La mancanza di chiarezza riposa. Riposa. È possibile che nella chiarezza ci sia anche una certa forma di violenza». Se aver chiaro qualcosa significa individuare in modo violento dei confini precisi negli oggetti della nostra esperienza, allora l’oscurità e la rinuncia a delimitare il reale conduce forse all’unica forma di pace accessibile a noi esseri umani. Ora, a partire da questa concezione, è possibile elaborare un’idea di teatro e di letteratura che, invece di opporre violenza a violenza, lascia programmaticamente ogni velleità di ordine e chiarezza per abbandonarsi a un caos liberatore. Non ci sarebbe allora attore o poeta più pacifico di quello che crea senza sforzo e rinuncia alla tentazione di definire o comprendere qualcosa, lasciando che l’abisso della realtà si dispieghi nel suo mistero.
Un terzo spunto di approfondimento riguarda infine la dimensione teologica, forse l’unico punto in cui mi sento di esprimere una forma di amorevole dissenso. Blanco recupera il tema dell’annuncio o celebrazione della violenza ispirandosi al motivo biblico dell’Annunciazione, che ad esempio mostra come dio, gli angeli, il cristo, i santi “annuncino” la venuta di un mondo migliore attraverso l’esperienza del martirio e della persecuzione. La conseguenza è un’estensione della violenza al divino: anche questi cercherebbe il bene e il bello passando per il male, la morte, il brutto. Ora, però, a livello di nuovo logico, ciò sembra un assurdo. Se infatti la divinità è per natura beata, immortale e quieta, allora non può cercare bellezza e bontà in sé o negli altri. Altrimenti, essa cercherebbe un bene o un bello che le manca, il che è appunto contraddittorio con lo statuto stesso dell’essere divino. Mi pare allora più sensato, anche se straniante, negare la violenza al divino e ritenere che l’essere umano sia l’unico essere violento al mondo. Una delle conseguenze certo difficili da accettare è, allora, che il profumo dei fiori del male sia un piacere unicamente nostro e che nemmeno un essere divino può sentire. Per un’unica cosa l’umanità è superiore a dio: per la capacità di cercare la bellezza dolce-amara dell’arte.
Ignoro se queste mie considerazioni abbiano fatto giustizia al complesso lavoro di Sergio Blanco. Spero tuttavia, per tornare un’ultima volta alla immagine del fiore, di aver aiutato a capire come, secondo la sua prospettiva, anche in una cosa che si affaccia delicatamente al mondo ci sia una forma di violenza, seppure del tipo costruttivo. Un piccolo fragile fiore nasconde in sé una forza immensa, in quanto si oppone violentemente alla forza di gravità che lo farebbe rovinare a terra, o cerca di soffocare i fetidi miasmi della terra malata che la circonda, spandendo intorno a sé un aroma rassicurante e benefattore.
(L’intervento condensa le mie riflessioni che hanno preceduto il dialogo con Sergio Blanco dopo la conferenza-spettacolo Les flores del mal, o la celebración de la violencia, tenutasi il 31/05/2019 al LABOratorio San Filippo Neri di Bologna entro il festival PerformAzioni 2019. Ringrazio Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola di Instabili Vaganti per l’opportunità).