Se c’è un merito che possiamo riconoscere allo psicodramma consumatosi in occasione dell’ultima edizione del Salone del Libro di Torino è senza dubbio quello di aver posto all’attenzione un quesito centrale: siamo ancora un Paese fondato sull’antifascismo e la nostra Repubblica affonda le sue radici nel 25 aprile? La risposta non sembra poi così scontata. Fatte salve poche eccezioni, oggi l’antifascismo sembra relegato ai discorsi pronunciati durante le celebrazioni istituzionali e alle dichiarazioni dettate dall’emotività della cronaca. Quello che emerge con sempre più chiarezza è una generale e diffusa indifferenza verso tutte le forme possibili di apologia del fascismo, come se il reato di apologia fosse un retaggio della storia.
Se un ministro della Repubblica diserta le celebrazioni del 25 aprile derubricandole a un «derby tra rossi e neri», se l’editore di una casa editrice può affermare spudoratamente «di essere un fascista e che Mussolini è stato il migliore statista della storia e l’antifascismo è il vero male del Paese», l’impressione è che il messaggio che sta passando è che dichiararsi fascista non è ormai più un tabù.
Le idee di estrema destra sono uscite dal cono d’ombra nel quale erano state ricacciate dalla storia e si ripresentano oggi sotto vecchie e nuove forme come risposte alla crisi del mondo contemporaneo.
Il ritorno di parole e slogan che credevamo sepolte vengono riproposte come risposte semplicistiche di fronte alle grandi emergenze del nostro tempo: il terrorismo internazionale, l’ondata migratoria e la crisi economica.
Se i nostalgici del fascismo sono sempre esistiti, quello che la cronaca ci propone quotidianamente è una recrudescenza di manifestazioni che sfociano in aggressioni verbali e fisiche contro rom e migranti, giornalisti e associazioni umanitarie. Fantasmi che tornano a tormentarci e che, soffiando sul fuoco dei conflitti sociali, fanno proseliti.
È tempo di aprire un dibattito serio sul fenomeno senza derubricarlo a semplice folklore, a fenomeno residuale.
Il fatto che oggi si debba rivendicare l’importanza della Storia, cancellata dalle tracce degli esami di maturità, è un segno dei tempi.
Il fascismo è stato un evento unico, destinato a non ripetersi nella forma in cui l’abbiamo conosciuto, ma il grembo da cui prese forma è ancora fecondo.
Neppure, come ricorda lo storico Emilio Gentile, sta tornando il neofascismo perché non è mai andato via dall’Italia.
Vale la pena citare anche le parole dello scrittore Antonio Scurati, fresco vincitore del Premio Strega: «Il partito fascista faceva uso sistematico della violenza come strumento di lotta politica quotidiana. Basterebbe questo a rimarcare l’estraneità delle forme politiche del fascismo rispetto a quelle odierne». Le similitudini con il Ventennio, secondo l’autore del romanzo M. Il figlio del secolo, vanno semmai ricercate nel substrato, in quel «sentimento malinconico, regressivo, vittimistico-aggressivo del proprio posto nella storia e nella società del piccolo borghese imbestialito che oggi si rivolge ai leader populisti».
In quest’epoca di ossessioni identitarie, d’innalzamento di muri, di miti di una “fortezza assediata”, la risposta non può essere una minimizzazione della realtà. La violenza verbale, che ha sdoganato le retoriche dell’odio, non può essere liquidata con un’alzata di spalle.
In un tempo in cui si è affievolita la vocazione antifascista e la storia della Resistenza si è trasformata in un polveroso oggetto di antiquariato di cui disfarsi, arriva in soccorso il bel libro dello scrittore, giornalista, regista e autore di teatro Daniele Biacchessi L’Italia liberata. Storie partigiane.
Di fronte al rischio di una retorica fascista dura a morire, che oggi più che mai cerca di proporre l’immagine di un Ventennio dal volto umano (“il fascismo ha fatto anche cose buone”), l’ultimo lavoro di Biacchessi appare più che mai necessario. C’è in questo testo l’urgenza e il dovere del racconto per un autore che ha fatto della memoria uno dei fondamenti del suo lavoro, consapevole che soltanto il recupero della memoria può fornirci gli anticorpi contro patologie oggi risorgenti.
Come ha affermato lo scrittore spagnolo Javier Cercas: «viviamo in una sorta di dittatura del presente (ciò che è accaduto ieri è storia, e ciò che è accaduto una settimana fa è preistoria), e questo genera una visione falsificata della realtà, perché il presente comprende anche il passato».
Le storie che Daniele Biacchessi ci propone nelle pagine del suo lavoro sono quelle che hanno trasformato donne e uomini normali in piccoli grandi eroi con le loro passioni, speranze, entusiasmi e paure. Una generazione che in soli venti mesi, dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile del 1945, decise di riscattarsi dalla dittatura e di combattere, nel vuoto politico e istituzionale creatosi con la dissoluzione dell’esercito regio, per liberare il Paese dal nazifascismo.
Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine, Risiera di San Sabba, la vicenda dei confinati di Ventotene e dei fratelli Cervi. Storie, luoghi e scelte che hanno cambiato il corso della storia. Il sacrificio di donne e di uomini che hanno consegnato alle successive generazioni la libertà e la democrazia.
Storie di partigiani raccontate alle nuove generazioni che non hanno conosciuto la guerra, i bombardamenti, la miseria e che non sanno cosa vuol dire vivere senza libertà.
Biacchessi prende in mano il testimone della memoria per tenere accesa quella stella polare che rischia di spegnersi in un momento in cui troppi partigiani ormai non ci sono più a raccontare la loro fede in un mondo migliore.
Un progetto multimediale finanziato attraverso una campagna di crowdfunding e realizzato in collaborazione con Associazione Arci Ponti della Memoria e il sostegno morale di Arci nazionale, Coop Lombardia, Materia 2019 Open Future, Comune di Milano e di numerosi circoli Anpi sparsi nel territorio nazionale.
Il libro di Biacchessi, illustrato da Giulio Peranzoni, sarà anche un film in uscita ad aprile 2020.
Daniele Biacchessi, L’Italia liberata. Storie partigiane, Jaca Book, Milano, 2019, pp. 314, euro 35,00.