Nei giorni relativamente lontani in cui meditavo sull’inciviltà perduta dei teatranti, scrivevo che l’indomito Marcello Sambati aveva aperto con lo spettacolo Danze locuste un nuovo spazio teatrale nella città di Roma, zona Tor Fiscale, che aveva preso il nome di “campo barbarico” a seguito dell’invasione e occupazione del territorio da parte dei barbari, sedici secoli prima. Anche se in estrema sintesi voglio ritornare sulla questione dell’“attraversamento dei campi barbarici” con riferimento particolare alle aree intermediali e sinestetiche: non solo perché se ne fa fugace riferimento nel libro Margine e meraviglia. La scena corporea di Marcello Sambati dedicato al regista pugliese, pubblicato nella Collana Spaesamenti (e edito dalla casa editrice Editoria&Spettacolo), a cura di Paolo Ruffini, ma perché ritengo che il “teatro barbarico” rappresenti un tema di rilevante interesse artistico e culturale.
Il libro è curato da Carla Romana Antolini – che firma un’intervista all’autore, molto utile, – e si avvale dei contributi intelligenti di Dario Evola (Marcello Sambati atleta del cuore), Lorenzo Mango (Teatro come evento poetico), Raimondo Guarino (Nella parte remota della scena) e Marco Palladini (Tra luci e tenebre le lezioni poetiche di Marcello Sambati).
Premesso che <<qui>> – per dirla con le parole di Palladini – << il teatro è il viaggio senza meta finale di un rito santo e ineffabile, fortemente concentrato e concentrico. Qui il teatro è il viaggio senza meta finale di un solitario, di un naufrago cosmico (e di un “barbaro>”) che lavora per sottrazione, per iridescente negazione, che taglia via ogni superflua esteriorizzazione>>. Credo che la ricerca teatrale debba, in altre parole, prevedere il ritorno ai primordi e che per realizzare questo nostos sia necessario “accamparsi” prima della grazia, prima della musica, prima della danza e della parola. Di questi tempi le attese non mantenute sono spesso tradite da cogitazioni insipide, distinte di sentimenti, descrizioni di fatti e di psicologie, sequele di moduli espressivi ripetitivi, rituali esangui, processi di formalizzazione senza mistero e senza valore poetico.
Il corpo come spazio scenico definisce il compito fondamentale del performer: è il luogo senza limiti e senza forma, dove parlano tutte le cose del mondo interiore, che l’autore chiama “dell’infinire”. In questo luogo, i punti neri, i buchi, sono i semi di una rosa, cioè di una nuova vita che rivive e rifiorisce, e non si sa come. È luogo dell’imprevisto, dove sfrigola tutto ciò che è buono per comunicare. Negare il corpo significa ignorare la “carnalità dell’anima” (secondo Ildegarde): escludere la possibilità di sfiorare il dio della selva.
Campo barbarico sconfinato, dunque, dove può accadere l’imprevedibile, terra sottoposta all’assalto di forme selvagge di vita. Territorio umbratile, limite, soglia, luogo dell’orrore aurorale, regno di “sovraumani silenzi” rotti da grida, eccessi e paradossi rivelatori di verità nascoste. Luogo di transiti indecenti, di attraversamenti ambigui e contraddittori, di trasformazioni, di agoracrite figure in accampamenti improvvisati legati al “sapere e al non sapere”, dimora di corpi eretici, di pensieri caotici, di ghigni e di presenze fuori dal baccano delle mode e delle compiacenze rassicuranti. E l’impegno ideologico estetizzante (segnalato a suo tempo da Bartolucci) non era un tonfo della cultura europea, e come tale una barbarie? E il teatro sottoposto al peso del dato, dell’informazione e dell’impegno civile non è un altro tonfo mieloso della contemporaneità?
Prima questione. Kundera nel libro L’arte del romanzo cita una quartina di Jan Skàcel: <<I poeti non inventano poesie/la poesia è in qualche posto là dietro/là da moltissimo tempo/ il poeta non fa che scoprirla>>. Il teatro di poesia non è dato da un testo scritto in versi, ma dalla “poesia della scena”. Perché la bellezza, si sa, non è generata da una bella immagine o da una bella frase. La bellezza è una cosa tremenda, e paradossale, e mostruosa a volte. Attiene all’invisibile, non all’etica o all’estetica. È sguardo e orecchio nuovi, originati dalla latitanza di dio. È la sinestesia che va oltre i cinque sensi. È l’attraversamento del campo barbarico, radicato nel corpo-mente dell’arte “in transito”.
Seconda questione. Posso tentare di andare oltre la barbarie se non la rifiuto a priori come cosa estranea alla mia persona, ma l’accetto come uno dei mondi possibili che mi appartengono. In altri termini, per andare oltre la barbarie, devo riconoscere di essere barbarico, anche se non ho mai compiuto atti d’inciviltà barbarica.
Terza questione. Riguarda l’opportunità del ritorno alle origini, disconoscendo lo spettacolo dal vivo come un’arte pragmatica. Sono le azioni fisiche, con il loro carico di nascosto e di misterioso, a caratterizzare i personaggi e non il carattere dei personaggi a caratterizzate le azioni fisiche.
Margine e meraviglia. La scena corporea di Marcello Sambati
a cura di Carla Romana Antolini
Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG), 2018, pp. 196, euro 16,00.