Curiose coincidenze tra alcuni spettacoli in programmazione al festival romano diretto da Valentina Marini Fuori Programma, sebbene le biografie artistiche di questi autori raccontino tutt’altro. In realtà, eccezion fatta per Marcos Morau e il suo complesso sillabario di movimenti non catalogabile nel solo alveo danzereccio, tutti gli altri mostrano di fatto un comune gradiente nell’espressività estroflessa e in una letterale fisicità, anche se non per tutti arricchita da caratteri stilistici accentuati. Stiamo parlando di quattro lavori visti al Teatro India di un festival nella calura estiva che ha richiamato moltissimo pubblico, entusiasta e partecipe, e che ha avuto il suo prologo al Teatro Quarticciolo dove tornerà per l’epilogo settembrino. Il gruppo di lavori in questione che sembrano raccogliere una certa involontaria “sfida” di coincidenze, oltre a Equal Elevations di Morau e la sua compagnia La Veronal, riguarda Concerto Fisico di Balletto Civile, Erectus di Abbondanza-Bertoni e Future Man di Spellbound.
Quanto mai differenti letture del portato coreografico e di immaginari non soltanto fisici o ideali, dunque, seppure invece una desiderata nel levigare partiture molto dinamiche e ad incastro fra i corpi dei sui interpreti è evidente, anzi ne costituisce la cifra, rispondendo forse a un carattere della stessa Marini, la quale nella danza-opera o più in generale in un “ascolto” del corpo agìto all’interno di una narrazione sembrerebbe puntare. Morau per questo è un outsider anche se bene si colloca nel Fuori Programma per quell’eccesso linguistico di cui è portatore. Dinamica, dialettica serrata fra corpi, incastri visivi come grovigli o ammasso di nervature, ragioni muscolari o nudità esposte, tutti elementi che vanno a depositarsi in quell’altro cuneo che sembrerebbe rimarcare un’altra delle coincidenze, ovvero l’ossessione. Ossessione come insistenza maniacale sullo stesso fraseggio, quasi per far risuonare un’eco nella frizione fisica che cerca di “secolarizzare” il gesto o, come nel caso della Lucenti, persino il racconto-canto, una cucitura di spazi interiori con le modularità del movimento che, proprio nella Lucenti, è generatrice (questo legame fra interiorità e azione) di assoluti epifanici sin dai tempi de L’impasto, prima compagine dove “militava” con Alessandro Berti. Ossessione del dettaglio reiterato, di una condizione o habitat prima ancora che di una prassi, ossessione di quella che il duo Abbondanza-Bertoni chiamano sfrontatezza ma che probabilmente mette in evidenza il chiaro e lo scuro di un pensiero sulla danza, il concetto di libertà e di regola, dove la nudità è nerbo e allo stesso tempo “debolezza”, è jazz (la tessitura musicale scelta è quella di Charles Mingus) che proprio nell’ordine rilegge l’apparente disordine dell’improvvisazione (si pensi allo straordinario omaggio di Joni Mitchell nell’album dedicato al compositore dell’Arizona).
Morau predilige il pubblico tutt’intorno, quasi a ripensare a un’idea postuma di rito nel quale siamo chiamati inevitabilmente a parteciparvi (i performer a un certo punto interloquiranno con gli ignari spettatori), ma il suo innesco, la sua ossessione è in una micro partitura che segmenta e fraziona le articolazioni corporee, come nelle figure di Heinrich von Kleist o nella poupée di Hans Bellmer, le smonta e le assembla con ripetuta voracità di un gesto in parte ipnotico e in parte tendente all’estromissione, alla rivolta (che mai accadrà), alla frattura. In fogge optical l’ossessione dei corpi tende all’incastro per diluirsi subito dopo e quando l’incastro è nell’assolo il performer riconsegna uno spazio “esistenziale” mnemonico, uno spazio che guarda quel gesto e la memoria dello stesso in una restituzione amplificata, come nelle combinazioni di un cubo di Rubik, con infinite possibili varianti dell’occasione gestuale. Anche Mauro Astolfi coreografo di Spellbound sembra nutrire una certa attenzione alla ossessione dell’identico, del gesto “glabro”, senza orpelli né sfilacciamenti che si accumula e ripete frazioni di sé nell’equilibrio di materie sceniche e fisiche, vicino a quel montaggio e smontaggio di cui sopra sebbene qui la psiche lavori accanto, parallelamente si potrebbe dire, al discorso proprio della coreografia con una necessità narrante ed emotiva incipiente. Il dialogo fra i danzatori è fluido, ricorrente e rincorrente, un meccanismo a orologeria tra le possibilità dell’adesso e un piano desiderante del futuro; questo primo studio, d’altronde, non nasconde l’aspirazione di una concept-opera nella quale ribadire il tempo e la coscienza dentro le radici delle tradizioni, quali elementi vivi e ordine di riferimento. Quel continuo riassettare t-shirt e dispiegarle subito dopo per poi di nuovo tentare di confezionarle in un ordine – appunto – dal quale fuggire nella consapevolezza di non poterlo fare, è il punto sul quale Astolfi ci “chiede” di misurare il nostro spazio di controllo.
Fuori Programma. Festival Internazionale di Danza Contemporanea, direzione artistica Valentina Marini, Teatro India, Teatro Biblioteca Quarticciolo, Daf Dance Arts Faculty, Roma, dal 27 giugno al 7 settembre 2019.