Credo che al presente vi è in atto una sorta di Carmelo Bene renaissance che sta coinvolgendo anche chi scrive. Difatti voglio ricordare che alcune pagine sono da me dedicate a CB nel mio da poco uscito La pagina, lo sguardo, l’azione. Esperienze drammaturgiche italiane del ‘900 (Roma, Bulzoni, 2019). In esse, tra l’altro, mi chiedo: cosa ci ha lasciato in eredità Carmelo Bene? Può avere oggidì dei novelli discepoli attoriali, ad esempio? Mi pare assodato che da questo punto di vista la sua memorabile ed eccezionale lezione sia improponibile sulla scena, per nulla imitabile (se non con eventuali scimmiottature, ovvio). Gli stessi suoi testi, sia drammaturgici che letterari, e cinematografici (sceneggiature) proporrebbero enormi difficoltà per una rinnovata loro realizzazione spettacolare (e d’altra parte tra le convinzioni basilari del Nostro c’era l’idea del “teatro senza spettacolo”).
E perché? Credo che basti solo una dimensione di pensiero e interiore per rispondere, e cioè quella di un amor vacui, relazionato al de-pensamento, al far vuoto, che, a ben riflettere, come hanno fatto ad esempio sia Umberto Artioli, che Antonio Attisani, portano dritti verso una sorta di misticismo “al negativo”, che affiora in opere ancor giovanili come la sceneggiatura mai realizzata in film dedicata a San Giuseppe da Copertino (al secolo Giuseppe Desa).
Certo, seguendo le riflessioni di un Panikkar, il mondo d’oggi (e forse di domani), sembra essere fatto o di ottusi integrati col e nel sistema, o\e di terroristi di vario genere, e\o di mistici. Perché non credere che non pochi attori di teatro non siano di fatto e di principio, e forse di necessità, a loro modo, dei mistici, al positivo? Intendo dei mistici non sulla linea delle esperienze seicentesche, spesso trasportati su un piano vaniloquente e patologico, ma, seguendo anche la dimensione orientale di tale fenomeno, persone che sanno pienamente raggiungere una pienezza di vita, sia fisica che psichica che spirituale
C.B. questo cammino non l’ha compiuto: troppo legato alla decadence ottocentesca, a Schopenhauer, a Nietzsche, al pensiero dei francesi del Novecento (Derrida); e poi troppo angustiato dai malanni fisici e dagli stravizi, controbilanciati da certe sue spinte spiritualizzanti, come la venerazione per il Santo di Copertino.
Naturalmente si può e si deve ricordare da parte di chi lo ha visto e ascoltato sulla scena, che c’è stato per tanti di noi un C. B. che ha impressionato per sempre la nostra interiorità; fare esperienza del suo stare sulla scena per molti della mia generazione ha costituito un valore indimenticabile, che si ravviva ogni volta che solo lo rivediamo e ascoltiamo su un supporto audiovisivo.
E dunque vengo al libro piacevolissimo, originale, quindi non scontato curato da Nicola Savarese, professore ordinario di Storia del teatro a Lecce, poi Bologna, poi Roma; studioso di livello internazionale sul rapporto fra culture teatrali occidentali e quelle orientali; stretto collaboratore di Eugenio Barba e dell’I.S.T.A., nonché anche effervescente preciso e dotato uomo di penna!
Il libro direi che ha il suo primo pregio nelle sorprese che ci riserva!
Innanzi tutto, l’intervista che costituisce il centro del volume datata gennaio 1997, svoltasi in tre serate a Otranto, e tra un assaggio e l’altro di pesce cucinato alla Bene, e di manicaretti preparati dall’intervistatore, e ripresa quindi dopo 22 anni da Savarese, spolverata, ben lucidata, emendata da piccoli e inutili particolari e passata dalle bobine del registratore alla pagina. Per gli studiosi di teatro e del lavoro dell’attore il genere “intervista” ha una sua connotazione particolare: mentre a uno studioso di letteratura, ad esempio, appare il libro e dietro c’è l’autore, assente (idem per un’opera figurativa: ce l’hai davanti e il pittore non c’è, diciamo che sta dietro), nel caso dei diciamo “teatrologi”, questi ultimi hanno davanti a loro l’opera e l’autore assieme, quando lo osservano sulla scena o anche al lavoro preparatorio, pre-scenico! Per questo motivo l’intervista può essere un prezioso strumento d’indagine sulle modalità pre-espressive ed espressive degli attori, i quali possono, fino ad un certo punto, verbalizzare anche il loro lavoro fisico-organico e il rapporto corpo-mente. Ecco perché, ad esempio, ritorna come un breve mantra, nel libro, la convinzione beniana della voce che è corpo, spazio-tempo, e che finisce chissà dove, come fatto “metafisico”.
Mentre nelle prime due parti dell’intervista (le due prime sere) Savarese più che guidare l’intervista è guidato dall’inevitabile strabordare di C. B., nella terza parte, altra sorpresa, vien fuori, anche per la sensibilità e l’attenzione davvero amicale di Savarese, un Carmelo umanissimo, che svela i suoi limiti, le sue sofferenze, il suo vivere come dentro una prigione tra l’altro costosissima, non potendo più ridimensionare i suoi stili di vita; un Carmelo che si sente tradito dai tanti amici che, una volta operato al cuore, lo hanno abbandonato: non gli resta che avere dei riconoscimenti nella sua terra, in quel Sud del Sud, che finirà per onorarlo fin poco prima della morte.
Altra sorpresa deriva dalla confessata, fin dall’inizio, “ignoranza” dell’autore del libro, riguardo il lavoro scenico di C. B., rimasto sostanzialmente fuori dai sentieri della ricerca personale del Savarese. In realtà tutto è avvenuto un po’ per caso, a partire dal 2005 quando Carmelo svolge un incontro all’Università di Lecce, ospite del professor Savarese. Da quel momento nasce un vero rapporto di amicizia “folgorante”, corroborata dalla comunanza dello spazio di vita pugliese, prima ancora, direi, che dall’interesse per il teatro e l’arte e la cultura in generale. Amicizia durata per un quinquennio, in cui si succedono anche momenti conflittuali e spiacevoli, poi superati, raccontata, nella seconda parte del volume Cronache di una gentilezza. Ovvero conoscere Carmelo Bene senza la bibliografia precedente, con la sorprendente considerazione di Carmelo come di «una persona affabile e mite che non faceva pensare all’abisso della turbolenta fama che si era procurato» e sempre capace di esprimersi con un «dire caldo, avvolgente, solo a tratti speziato». Un rapporto così stretto ha permesso all’autore la conoscenza di un C. B. privato, del tutto opposto a quello pubblico di tante battaglie indimenticabili. Fra un piatto e l’altro, fra un pesce magistralmente cotto da Carmelo e i piatti inventati da Nicola, il libro ci offre il racconto piacevole, sincero, affabulante, di un incontro d’amicizia fra un grande studioso e uno fra i pochissimi inarrivabili artisti teatrali del Novecento non solo italiano. Completa la pubblicazione, che raccomandiamo a tutti i lettori, specie quelli più giovani che poco hanno saputo di C. B., una interessante e riassuntiva precisa Introduzione di Leonardo Mancini.
Nicola Savarese, nicola savarese intervista carmelo bene bene in cucina, edizioni di pagina, Bari 2019, pp. 200, euro 14,00.