Una persona non è, come ho creduto un tempo,
chiara e immobile davanti a noi (…) ma è
un’ombra nella quale non possiamo mai penetrare,
per la quale non esiste conoscenza diretta, rispetto
a cui ci costruiamo svariate credenze con l’aiuto di parole e anche di
azioni che, le une e le altre, ci
danno soltanto informazioni insufficienti
e oltretutto contraddittorie, un’ombra in cui
possiamo volta per volta immaginare con la stessa
verosimiglianza che brillino l’odio o l’amore (…).
Marcel Proust
Il teatro di Tamara Bartolini e di Michele Baronio ha una caratteristica precipua: nutrirsi di incontri. Incontri aperti al confronto e guidati da una ricerca costante che dà a quel confronto un significato vitale sia nella costruzione dell’impianto scenico sia nella relazione con gli spettatori. I lavori dei due artisti sono lavori “rapsodici” alimentati, tuttavia, da un’insolita, fertile e rigorosa composizione linguistica che proprio per questo sono in grado di generare condivisione e empatia.
Tutt’intera, la messinscena presentata al Teatro India di Roma dal 18 al 20 febbraio 2020, non è che una conferma di quanto affermato. Lo spettacolo – tratto dal testo Tout entière di Guillaume Poix tradotto da Attilio Scarpellini, il quale restituisce con grande intensità le vibrazioni delle parole che il giovane drammaturgo e scrittore francese sceglie per portare alla luce l’opera e la biografia della fotografa statunitense Vivian Dorothy Maier – è un viaggio tra le maglie della vita di colei che è considerata una delle maggiori esponenti della street photography. Ma chi è Vivian Dorothy Maier? Quale il ritratto che ne fanno Tamara Bartolini e Michele Baronio? E, soprattutto, perché si interessano a lei? Perché, di fatto, uno degli aspetti portanti della loro poetica è quello di entrare costantemente in relazione con la memoria in modo da creare un collante tra identità personale e identità collettiva, riuscendo a far dialogare l’umano e l’umanità. Un rapporto che spesso sfugge a chi lo vive e a chi lo osserva. Allora, la sfida è di addentrarsi nei mondi mutevoli, misteriosi, eppure meravigliosi, di vite più semplici o più complesse, contrassegnate da solitudine, paura, inquietudine, ma anche da sogni, desideri, aspirazioni. Come, d’altronde, l’esistenza di Vivian Maier: una fotografa geniale e una tata borderline; un’artista che non poteva fare a meno della sua passione, ma che non stampò mai le sue foto (centocinquantamila i negativi rimasti custoditi in scatoloni ammonticchiati in un box); una donna sensibile capace di prendersi cura con grande generosità di un’adolescente affetta da un grave handicap mentale eppure a volte esageratamente brutale con i piccoli che accudiva.
Tamara Bartolini e Michele Baronio costruiscono Tutt’intera proprio sulla “vitale contraddittorietà” dell’esistenza della Maier, già dal titolo del resto. Non è, infatti, per niente “intera” la fisionomia di Vivian: «Ha passato la vita a consegnare tracce per niente», «Non si concede di sviluppare ciò che ha visto», «Quello che vuole è cancellarsi, essere dimenticata», «È una donna che non si ama, che non ha fiducia in se stessa». Eppure, è da quel “non” essere o da quel “non” fare che i due attori ricompongono con maestria l’esistenza della fotografa statunitense. Sembra di essere in quella camera oscura, mai utilizzata, quando si entra nella sala del Teatro India. Due figure immobili ci accolgono. Sul fondo una parete bianca. Anche il bianco e nero che caratterizza la scena e i vestiti indossati non sono casuali. L’attrice in tubino nero, l’attore in completo nero e polo bianca. Un piano mobile con alcuni oggetti.
Passano pochi secondi e lo spettatore viene immerso in un vortice fatto di racconti, attraversati per frammenti, che ci conducono tra le strade di New York, Chicago, Los Angeles dove quella bizzarra «governante che non governa» cerca di entrare in contatto «con l’Arte e con la Storia» in una maniera «consapevole», sebbene «reticente e privata». Il ritmo della messinscena non conosce tempi morti. Gli attori non si risparmiano. Sono dentro il “gioco del teatro” e, mentre l’attrice – epicamente – narra dell’introversa e indefessa fotografa – che con il suo sguardo e la sua Rolleiflex ha saputo testimoniare la realtà metropolitana, spesso misera e in rovina – l’attore (anche musicista di talento) con la sua chitarra elettrica scandisce passaggi e paesaggi sonori che permettono a noi spettatori di “abitare” tutti gli spazi metropolitani raccontati, persino le vetrine dei negozi che per Vivian diventavano “specchi riflettenti” del suo esistere. Il riverbero di luce, suoni, parole, immagini emergono via via insieme alla meraviglia che il teatro sa destare: come, ad esempio, quei profili, quei contorni volutamente sfocati, che sono l’espressione della protagonista, quel farsi spazio nella propria solitudine per comprendere qualcosa in più sul mondo che la circonda e che ci circonda. Il teatro e la vita vivono in un flusso ininterrotto. Non c’è alcuna frattura nella messinscena. Ogni possibile interstizio di quell’esistenza viene penetrato, vissuto dai due interpreti che sanno accogliere con incredibile sensibilità l’esistenza di Vivian Maier. E lo fanno da attori consapevoli attraverso la loro arte. Lo fanno dando corpo e anima all’esistenza “sottoesposta” di Vivian, entrando e facendo entrare noi spettatori con una «molteplicità di visuali», per dirla con le parole di Peter Brook, dentro la biografia della fotografa.
Lo stupore e la meraviglia sono la molla di ogni sapere. Lo stupore, in particolare, dichiarava Cesare Pavese, è «la commozione davanti all’irrazionale». E come non stupirsi allora, di fronte a quelle sagome che emergono con tutta la loro forza da una bacinella colma d’acqua e proiettate su una lavagna luminosa? Come rimanere impassibili di fronte alle immagini metropolitane delle città attraversate da Vivian? E, infine, come non lasciarsi coinvolgere dall’incalzare delle domande che i due attori si fanno e ci fanno nominando i titoli delle fotografie della Maier, mentre gettano a terra una grande quantità di cartoline? In quel momento, verrebbe di salire sul palcoscenico e prenderle in mano quelle cartoline. Troppa è la curiosità che i due interpreti sanno suscitare su una donna e un’artista che non ha saputo credere nella propria arte e che forse non si aspettava venisse riesumata con così grande garbo dopo tanti anni.
«Persa e segreta nella sua vita in negativo, l’identità di Vivian Maier assomiglia a quella dell’attore, nudo di fronte a se stesso e al pubblico e alle vite che non sono la sua, tanto da diventare tutt’uno».
Ma se la Maier non è “tutt’intera”, la messinscena “rapsodica” di Bartolini-Baronio lo è.
Tutt’intera
testo Guillaume Poix
traduzione Attilio Scarpellini
regia e interpretazione Tamara Bartolini e Michele Baronio
produzione Bartolini/Baronio, 369gradi
in collaborazione con Pav, con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati- Fondazione Franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea nell’ambito di Fabulamundi Playwriting Europe-Beyond Borders.
Teatro India, Roma, dal 18 al 20 febbraio 2020.