A diciassette anni mi mettevo a scaricare film dal balcone, usando un vecchio computer e cercando di connettermi alle reti non protette della zona. Stavo in ginocchio perché il segnale si prendeva meglio, e se ero fortunato (e la stagione lo consentiva) trovavo pezzettini di file da prendere e mettere insieme per il lungometraggio, fiducioso nel risultato finale come un montatore cieco. Poi comprammo un router tutto nostro, e come prima cosa mi accertai di chiuderne l’accesso con una password. L’amico che mi fece notare l’ipocrisia potrei essere io, oggi, mentre vi pongo questa domanda su Parasite: perché i protagonisti, costretti a dipendere dai Wi-Fi intorno al seminterrato in cui vivono, cercano poi di essere come i ricchi che li considerano scarafaggi?
La palazzina dove vive il giovane Ki-woo è troppo fetida per gli ascensori sociali, e tutta la sua famiglia è costretta a campare ripiegando colonne di cartoni di pizza per soddisfare una manager pignola. La frustrazione nel vedersi detrarre percentuali per gli angoli imperfetti rimane docile di fronte a chi misura la dignità con un righello, e non potrebbe essere altrimenti, visto che Ki-woo non tarda a chiedergli un lavoro fisso nell’azienda. Lo salva dall’imbarazzo l’amico Myn-hyuk, studente universitario (lui sì) in partenza per un periodo di studio all’estero, cedendogli le sue ore di ripetizione d’inglese a una ricca ragazzina (Da-hye Park). Ki-woo dovrà però fingersi un immatricolato a Oxford, e l’“artistica” sorella Ki-jung non tarderà a “fotoscioppargli” la prova. Entrato con la falsificazione nella lussuosa casa Park (un compendio di legni sobri, linee orizzontali e pareti grigio-morbide), il nostro non tarderà a mettere in moto una serie di stratagemmi per far infiltrare l’intera famiglia: la sorella, presunta laureata in arte a Chicago, sarà l’insegnante di arte-terapia del piccolo, terribile secondogenito, e verranno infiltrati anche il padre Ki-taek e la madre Chung-sook. I facoltosi Park li assumeranno uno dopo l’altro, all’oscuro della parentela che li lega, e naturalmente a beneficio di cospicui introiti per tutti loro. Da cui i parassiti del titolo.
I Kim passano dall’indigenza a una situazione che non si può esattamente definire di rivincita del proletariato. Normalmente, l’emancipazione passerebbe per una via di catartica liberazione dalla subalternità, in un percorso alla fine del quale si raggiunga una smarrita essenza. Qui invece si cerca di circuire i ricchi con i loro stessi mezzi. In un sistema economico iniquo, la ricchezza è per definizione frutto dell’inganno, la rapina di lavoro fatto altrove, da chi rimane perpetuamente escluso dai suoi frutti. Parassiti sono i ricchi stessi, ha detto il regista Bong Joon-ho: parassiti del lavoro. Ma se i Park sono esistenzialmente responsabili di questo misfatto, non si può dire che la famiglia Kim agisca in modo sostanzialmente diverso. Tutti fanno affidamento su un quantum di disonestà per massimizzare il loro profitto, avvalendosi impropriamente di titoli fittizi: il lavoro pregresso che sarebbe necessario per quel ruolo è scontato in una zona fantastica, inesistente. O se si preferisce: l’ossessione per l’esperienza e la paranoia del curriculum vengono aggirate con delle menzogne che la confermano. Si omette inoltre il legame familiare, e cioè lo scopo dell’assunzione collettiva: una migliore condizione di vita. L’imitazione dei loro capi diventa infine plateale con l’appropriazione del lavoro altrui: prima consenziente, con la sostituzione dell’amico per le ripetizioni, infine criminale, quando l’autista dei Park verrà incastrato per presunte molestie ai danni di Ki-jung (e sostituito dal padre con un’esperienza artefatta nell’ambito) e la governante accusata di tossire per una tubercolosi e non per una semplice allergia (e prontamente rimpiazzata dalla madre).
Il conflitto, invece di essere plateale e di innescare la possibilità dell’emancipazione, è nascosto nel movimento di chi tenta disperatamente di tenersi in alto, ed è costretto perciò a calpestare e costringere qualcuno in basso, escludendolo dalla posizione che si è appena conquistata. Gli oppressi diventano oppressori, gli infestati parassiti. È nell’esplorare quest’ambiguità che il film si fa cinematograficamente più interessante. Ki-woo si presenta come un sagace intenditore delle emozioni umane, afferrando il braccio della sua allieva per sentirne il battito, dandole consigli sulla gestione emotiva dell’esame e così mostrandosi un esigente tutore alla madre che assiste, per convincerla ad assumerlo. Il campo-controcampo tra maestro e pupilla vede il volto di entrambi tagliato a metà dalla testa dell’altro. Il loro successivo scambio di effusioni (il flirt col nemico) ci aiuta a capire meglio che la faccia che stiamo guardando è una sola. Il regista gioca con questa doppiezza, un rompicapo in cui nessuno è innocente, ma senza esplicitarla subito. Invece, Parasite è cosparso di piccoli segni che solleticano un terrore, una colpa originaria, prima di raggiungere l’apice inaspettato. Anche quando la sorella Ki-jung ostenterà letture psicologiche dei disegni del piccolo Da-song, chiedendo se non abbia subìto un trauma in prima elementare, il grido spaventato della madre (còlto da una rotazione di telecamera che sarebbe valsa da sola l’Oscar alla regia) è immotivato quanto la nostra paura nell’aspettarci chissà cosa da questa scena. Ma entrambi fanno riferimento a un malessere rimosso, così come i giochi del figlio con gli Indiani d’America richiamano eventi terribili di un popolo scomparso. Che le sue frecce, lanciate in giro con apparente gratuità, mirino come un monito a questo nucleo tormentato? Forse Trump, che di fronte a tanti premi per la Corea del Sud ha rimpianto Via col vento, troverebbe i due film più vicini di quanto creda, nel fare uso di un momento critico della storia americana. Ma questa tensione viscerale, incubo di un fantasma estraneo che si percepiva minaccioso, viene poi spenta. La badante che chiede famelicamente alla madre Chung-sook «vuole venire giù con me?» non trasforma il film nell’horror di bassa lega che stavamo presentendo. Bong Joon-ho espone invece la contraddizione – ben più terribile – che sta al fondo dei timori parziali gelida e inevitabile: emersi con una scala dall’inferno, siamo pronti a spingervi giù chiunque minacci il nostro piccolo paradiso appena raggiunto.
La perfezione meccanica dell’incastro diabolico tocca il suo livello estremo quando Kim-woo si rende conto che l’unico modo per fermare la catena di sfruttamenti reciproci e riunirsi alla sua famiglia è diventare abbastanza ricco da elevarsi al di sopra di tutto questo. Ma certamente ciò rientra ancora una volta negli ingranaggi di un sistema che fa dell’uso del denaro (e, al massimo, della grazia che questo può concedere) il suo tragico innesto. In Okja, il precedente film del regista, la piccola Mija può salvare la sua creatura solo pagando in oro massiccio la multinazionale che l’aveva strategicamente progettata per la remunerativa macellazione. Nel frattempo, il resto dei “supermaiali” continuerà ad essere sterminato. Anche il treno spedito a folle velocità nella neve di Snowpiercer contiene il suo congegno indiscutibile, una divisione in classi che utilizza la stessa ribellione dei più poveri come fattore di equilibrio nel sistema, decimando le fila dei rivoltosi per ridurre il consumo a bordo. I capi dei due fronti opposti, Gilliam e Wilford (John Hurt e Ed Harris) erano sempre stati d’accordo nell’inscenare la crociata di Curtis (Chris Evans), passato da eroe della rivoluzione a infausta pedina borghese. Con testa e coda unite nella vessazione del più debole, Curtis dovrà distruggere il motore per rompere il piano perverso e non diventare lui stesso il nuovo capotreno. Lanciati verso la sconfitta, l’unica soluzione è un deragliamento per slavina.