Non esiste un’arte privata, un artista ha l’obbligo morale di incidere sulla realtà.
Piergiorgio Welby
Da subito, leggendo Ocean Terminal di Piergiorgio Welby, nel 2009, mi convinsi che valeva assolutamente la pena di costruire su e da quel testo, una performance d’attore capace di trasmettere agli spettatori grandi emozioni e grandi pensieri. Ne parlai con colleghi e amici dell’ambiente universitario del Dams di Roma Tre. Con Francesco Lioce, curatore del libro di Welby, e a quel tempo co-fondatore di una bella rivista “da battaglia” L’Infera; e poi con un attore col quale avevamo già realizzato alcuni validi allestimenti, Emanuele (Lele per gli amici) Vezzoli, che ritenevo essere in grado di realizzare un’importante opera teatrale, come è universalmente riconosciuta; io avrei fatto semplicemente da “consigliere” nella prima fase realizzativa. Dal primo istante ad oggi son passati dieci anni, e lo spettacolo è stato gratificato e festeggiato a febbraio 2020, con sei repliche, presso il Teatro Due di Parma. Rivedendo il cammino percorso, si può dire che Vezzoli e i suoi collaboratori hanno vinto una grande sfida, facendo di un materiale dapprima letterario e poi drammaturgico di gran fascino una prova d’attore libera dai condizionamenti correnti e meramente commerciali dell’attuale teatro italiano e costituendo un vivido esempio di teatro politico e civile, del tutto necessario.
Incontro sia Emanuele Vezzoli che Francesco Lioce, appositamente perché offrano la loro testimonianza ai lettori di Liminateatri.it. Chiedo a Emanuele Vezzoli:
Dopo circa otto anni in cui la tua performance ha avuto grande successo sia in Italia che all’Estero, facendo un primo significativo bilancio dal punto di vista artistico e creativo, registri qualche lacuna, qualche errore, qualche rinuncia dolorosa?
Se dovessi rispondere di getto direi sì, forse qualche rinuncia poteva essere evitata, come per esempio quella di debuttare in un teatro istituzionale con tutte le attenzioni per una Prima nazionale dell’opera di Welby; forse non mi sono dato da fare abbastanza per trovare un partner che potesse con fiducia sostenere il progetto, anche se in questa direzione sono stati fatti dei tentativi con il Teatro di Roma o con il Teatro Parenti di Milano per esempio, probabilmente avrei dovuto essere più coraggioso e paziente. Pensandoci bene forse è stato meglio così; in puro stile welbyano, da outsider, posso dire di essere orgoglioso dei risultati e del successo ottenuti. Dalla Domus Talenti di Roma dove ha debuttato, lo spettacolo grazie all’approvazione del pubblico e alle ottime critiche, ha raggiunto altre mete tra le quali Lugano, New York, Valencia ed è stato inserito nella programmazione stagionale 2019/2020 di un importante teatro istituzionale quale la Fondazione Teatro Due di Parma proprio nell’anno in cui la città è Capitale della Cultura.
Mi sembra opportuna e interessante una qualche tua considerazione sul rapporto di lavoro con la bravissima Gabriella Borni, curatrice dei movimenti scenici: quali le chiavi della vostra collaborazione?
La nostra collaborazione nasce da una conoscenza antecedente il progetto “Ocean Terminal”, quindi il punto di partenza era un punto in movimento come direbbe il maestro Peter Brook. Di certo quale sguardo migliore se non quello della coreografa che avrebbe dovuto aiutarmi a codificare il linguaggio del corpo che registicamente avevo deciso dovesse avere un ruolo predominante e in contrasto con l’effettiva immobilità del protagonista Piergiorgio Welby? Il lavoro con Gabriella Borni, già a lungo insegnante presso il Centro Sperimentale di Roma, è proceduto attraverso l’improvvisazione sul testo lungo un vero percorso artigianale ed intellettuale. A guidare le nostre azioni è sempre stato il profondo, singolare ed originale pensiero welbyano. E così passo dopo passo si andava costituendo una solida scrittura scenica fatta di immagini, suoni, respiri, sudore, un linguaggio nuovo dall’intensa carica empatica. Dunque a Gabriella devo molto, e la ringrazio di cuore.
La tua è una lunga e pregevole carriera d’attore: rispetto ai tanti personaggi interpretati, sotto quali profili si distingue e si connota l’interpretazione, doppia, del narratore e dello stesso Piergiorgio Welby in Ocean Terminal?
La formula adottata in questo spettacolo e cioè di utilizzare il ruolo del narratore come cavallo di Troia per traghettare il pubblico dalla platea nell’universo welbyano ha giocato uno strano effetto anche su di me: anch’io ho avuto bisogno di essere traghettato dall’altra parte. Il narratore mi ha dato la possibilità di sentirmi il privilegiato amico di Piergiorgio, e l’intimità del rapporto che ne scaturisce rappresenta per me come attore la libertà di approfittare del mondo di Welby per poterlo aprire all’esterno. Sulla scena ho sempre la nitida sensazione che i due personaggi convivano nello stesso spazio e che il loro rapporto sia veramente intimo, senza pudori. Quando da narratore fisso il tavolo vuoto dove c’è il corpo di Welby, per me lui è lì; il rapporto d’amicizia consente che, come attore, lo percepisca davvero e questo è di fondamentale importanza per tutto ciò che sta accadendo in scena in quell’istante. Quando termina lo spettacolo e il narratore scende tra il pubblico staccandosi definitivamente dal corpo di Piergiorgio, la commozione che mi pervade è difficilmente contenibile come a voler confermare la verità e la profondità del rapporto teatralmente costituitosi. Da una critica teatrale uscita dopo la rappresentazione al Fontanone Estate di Roma si evince che anche lo stesso giornalista che scrive crede di certo che l’attore Emanuele Vezzoli sia l’allievo, l’amico di Piergiorgio Welby. Come lavoro attoriale si può pensare agli esercizi di Stanislavskij, mentre ciò che accade nella mia testa è paragonabile forse a quella scomposizione che Pirandello magistralmente descrive attraverso i suoi personaggi di raisonneur.
Sul piano umano, psicologico, spirituale, ed anche fisico, quali effetti hai riscontrato in te stesso dopo questa lunga frequentazione, e transpersonificazione scenica, di Piergiorgio Welby?
Questo lavoro su e con Piergiorgio Welby mi ha irrimediabilmente cambiato anche come uomo, dunque è un arricchimento sia in termini umani che dal punto di vista professionale. Ocean Terminal si inscrive nella funzione antica e primordiale del teatro: un momento di condivisione sociale e politica di una comunità e se vogliamo liturgica; si tratta di una tragedia moderna il cui tempo è un presente assoluto hic et nunc, e questa funzione ci cambia. Ocean Terminal mi cambia ad ogni rappresentazione, mantiene vivo Piergiorgio Welby e mantiene vivo me, intellettivamente e fisicamente, in quanto lo spettacolo è impegnativo anche dal punto di vista atletico, Come mi hanno insegnato al Piccolo Teatro di Milano «un Arlecchino può recitare il ruolo fino a 70 anni», significa che ho ancora del tempo da dedicare a Ocean Terminal.
Infine, quale critica, sia di giornalisti, e professionisti teatrali, sia di spettatori, ti rimane di più nella tua memoria personale?
In assoluto la prima critica uscita dopo il debutto alla Domus Talenti di Roma, quella di Sergio Di Cori Modigliani; una critica trionfalistica, esuberante e soprattutto sincera, scevra da aderenze o appartenenze politiche o altro. Quello che mi fece piacere in particolar modo fu la considerazione che il giornalista fece riguardo allo spettacolo in relazione al suo inserimento nel panorama del teatro italiano «È stata una bellissima esperienza di ritrovamento di eccellenze italiane (…) regalando anche la certificazione che il teatro italiano – quello vero – maciullato e macellato dai tagli finanziari, può e deve ancora essere vivo e vegeto. Vivo più che mai». Una critica che ripaga appieno tutti gli sforzi e le fatiche sostenute da tanti. Poi ricordo quanto mi ha scritto una ragazza spettatrice, Francesca Scancarello: «Lo spettacolo (è proprio il caso di dirlo) mi ha lasciato emozionata, esterrefatta, scossa, in disordine. Vorrei sentirmi così tutte le volte che vado a teatro, guardo un film, leggo un libro o mi trovo di fronte al frutto della creatività umana». Lo spettacolo ha ricevuto critiche e commenti positivi ovunque e il motivo credo risieda nel fatto che va oltre l’immagine di un Piergiorgio Welby conosciuta attraverso i media, restituendoci così il profilo a tutto tondo di un uomo che ha vissuto e amato la vita fino alla fine, sostanzialmente intonando un “inno alla vita”.
Mi rivolgo ora all’amico Francesco Lioce:
Ricordo che, all’inizio del nostro progetto, ci trovammo di fronte al primo problema non indifferente: portare il libro di Welby, Ocean Terminal, pubblicato da Castelvecchi nel 2009, e da te curato, di circa 170 pagine, alla misura di copione teatrale, vale a dire a circa 30 pagine a stampa. Come hai lavorato a tal fine?
All’inizio temevo che si potesse disperdere la scrittura di Piergiorgio a vantaggio di una canonica reinterpretazione attoriale, ma così non è stato. Trovai da subito una consonanza con Emanuele, che la pensava esattamente come me, anche a lui interessava mettere fedelmente in scena la vitalità esemplare di Ocean Terminal e così optammo per gli episodi del romanzo più ricchi in questo senso. Con Luca Morricone, al mio fianco nella prima stesura del copione, scorciammo il testo, consapevoli che non tutti gli episodi segnalati da Vezzoli si sarebbero potuti inserire nella drammaturgia, il monologo avrebbe rischiato una lunghezza eccessiva. Seguimmo il flusso di Ocean Terminal filologicamente, attraverso i dialoghi di Welby con i genitori, i medici e le donne. Nello spettacolo ci sono anche i temi della politica, sarebbe insensato negarlo, ma restano inseriti nella cornice dell’opera, affidati alla voce del narratore: introduzione, intermezzo e fine della drammaturgia li ha ricavati Vezzoli dai racconti che ho scritto sul mio rapporto elettivo con Piergiorgio.
Dal punto di vista dello stile linguistico, lessico, figure retoriche, sintassi dei periodi, come hai impostato il lavoro?
In molti hanno paragonato la lingua di Welby a quella di Céline e Pasolini, o a quella di Tondelli, e senza dubbio sono raffronti che ci possono stare. È una lingua che ansima e grida, che schianta perché colpisce. Articola e musica tutti gli aspetti della vita, è onnicomprensiva, plurima fino all’incandescenza. Può fare ridere e può fare piangere, può esaltare, ma può anche provocare disagio, perfino imbarazzare: intona con il sesso la preghiera, mescola gli affetti familiari all’eroina, porta in giro per l’Europa gli impedimenti di un’orribile malattia. Da subito l’intenzione fu quella di preservare linguisticamente il testo nella sua integrità, e il capolavoro di Vezzoli consiste anche in questo rimettere sulla scena quello che Welby ha scritto, la performance fa vedere le pagine del libro, le ripete arricchendole di un’altra dimensione. Intorno a un tavolo di legno grezzo e con le pieghe sgualcite di un lenzuolo Vezzoli fa riascoltare in pubblico le parole di Welby fornendole di un corpo, con la mimica che ne restituisce le scelte retoriche, con i movimenti che ne proiettano la sintassi. Dopo le repliche al teatro romano dei Conciatori mi convinsi che c’era da integrare il copione iniziale con una partitura didascalica corposa, capace di riprodurre a specchio la fisicità verbale dell’azione. C’era una parola del corpo che andava anche letterariamente preservata, non potevamo limitarci a didascalie semplici, sulla falsariga di una segnaletica scarna da repertorio borghese, c’era un altro parlato che andava trascritto, non parallelo, ma compenetrato alla lingua autobiografica di Welby. Ne parlai con Emanuele, che subito capì, e ci mettemmo a lavorare per altri tre mesi.
Emanuele Vezzoli in che modo ha condiviso la tua fatica e ti ha dato i suggerimenti più importanti? Con lui, quali nodi del romanzo autobiografico welbyano avete assolutamente riportato sul copione?
È stato lui a suggerirmi le potenzialità infinite di un lavoro che andava fatto a partire proprio dagli aspetti più intimi e personali della vita di Piergiorgio. Con Emanuele ci siamo sempre ascoltati, lui è per me un fratello maggiore, intuisce e sa spiegare, risponde al momento opportuno. Ho supportato l’attore intuendo quanto di profondo ci fosse nell’uomo, seguendolo battuta dopo battuta e capendo come non ci fossero distanze ma soltanto aderenze tra il suo corpo e l’anima di Piergiorgio. Nell’incarnare lo scrittore Welby l’attore Vezzoli è motivato da una forza irrefrenabile che trasmette qualcosa di religioso e suggestiona la platea fino all’emozione. Ocean Terminal è la sua creatura teatrale, lo stato psicofisico di un’espressione artistica perfettamente compiuta. Il romanzo s’interrompe senza finire e anche in teatro lo spettacolo si conclude lasciando allo spettatore qualcosa di autenticamente vivo che prosegue oltre il tempo e lo spazio del palcoscenico.
Foto di Luigi Catalano, Michele Lamanna, Mat Nardone, Emma Vezzoli.
Un sentito ringraziamento va alla Fondazione TeatroDue di Parma per il materiale fornito.