«Antonin Artaud è letteralmente un bambino del cinema». Con queste parole si apre il libro che la ricercatrice Lorraine Dumenil dedica al rapporto tra il drammaturgo francese e la settima arte. Tutti associamo immediatamente la figura di Artaud al teatro ma la sua esperienza cinematografica è intensa. Se pensiamo che viene al mondo nel 1896, un anno dopo la proiezione del primo film dei Fratelli Lumière, capiamo che egli è a tutti gli effetti figlio della nuova arte.
Come osserva Dumenil, Artaud, esattamente al pari di Apollinaire e di Desnos, ha scritto contemporaneamente per il cinema e sul cinema, riflettendo sull’estetica del “nuovo strumento”, che prendeva forma davanti ai suoi occhi. Nel farlo si rapporta ad esso oscillando tra un entusiasmo debordante nel 1920 e un forte senso di disillusione e addirittura di odio nel 1930. Uno degli aspetti che il volume vuole mettere in evidenza è la singolarità dell’atteggiamento di Artaud verso il cinema rispetto ai poeti dell’epoca. Egli si distingue da loro poiché vi si avvicina non da intellettuale, bensì da operatore. Oltre a essere infatti lo sceneggiatore nel 1927 de La conchiglia e l’ecclesiastico di Dulac, uno dei più celebri film surrealisti, Artaud è anche attore. Tra il 1924 e il 1935 recita in una ventina di film tra cui Graziella di Vandel.
L’interesse per il cinema però arriva solo dopo quello per il teatro. Quando infatti nel 1920 Artaud si trasferisce a Parigi, incontra Lugné-Poe, direttore del Théâtre de l’Œuvre, che lo assume come figurante. Poco dopo abbraccia la carriera di attore, unendosi alla giovane compagnia del Teatro de l’Atelier, fondata da Charles Dullin. Soltanto a partire dal 1923 comincia a scrivere le sue prime sceneggiature e a interessarsi al cinema, che gli appare come una nuova arte capace di superare le altre, perfino quella teatrale. Ma a partire dal 1933, Artaud rinuncia definitivamente al nuovo mezzo, continuando a occuparsi soltanto di teatro. Il decennio di impegno cinematografico, tuttavia, lo segnerà profondamente. Le due arti, infatti, conviveranno in lui ancora a lungo. Il cinema inizialmente lo aveva sedotto per la sua capacità di proporre un nuovo linguaggio, nel quale lui aveva colto una possibile fuga dalla crisi in cui versava il teatro. Lorraine Dumenil insiste nell’affermare che Artaud abbia poi interiorizzato e tradotto la lezione del cinema nel teatro e la sua scelta di lasciare la recitazione e il testo in secondo piano sarebbero, secondo l’autrice, le conseguenze dell’esperienza di Artaud con il cinema muto.
Se da un lato, quindi, Artaud ricerca un dialogo tra le due arti, dall’altro dichiara con forza la differenza tra l’attore di cinema e l’attore di teatro. In un’intervista di René Clair per la rivista “Théâtre et Cœmedia illustré”, nel 1923, egli afferma che il cinema può agire più direttamente ed efficacemente del teatro sullo spettatore perché il pubblico, a teatro, vede essenzialmente gli attori, che prendono il posto dell’opera, mentre al cinema l’attore non esiste, non si interpone tra spettatore e film ma è in una nuova dimensione, quella virtuale. Questa sua trasparenza e assenza fisica finiscono per avere più presa sul pubblico. È difficile pensare che l’Artaud di tale dichiarazione sia lo stesso che solo qualche anno più avanti, ne la brochure Il teatro Alfred Jarry nel 1930, rivendica la necessità per il teatro di rinnovarsi con dei mezzi propriamente teatrali, esplicitamente pensati come diversi da quelli cinematografici. Qui Artaud scrive: «Il Teatro Alfred Jarry, consapevole della sconfitta del teatro di fronte allo sviluppo dilagante della tecnica, si propone con mezzi specificamente teatrali di contribuire alla distruzione del teatro quale attualmente esiste in Francia». La fascinazione iniziale per il cinema lascia qui il posto a una forma di competizione tra i due mezzi e alla volontà, da parte di Artaud, di distinguere nettamente i due ambiti, evitando ogni forma di contaminazione. Il rapporto con cui Artaud vive prima uno slancio fortissimo verso il cinema per poi abbandonarlo è paradossale e contradditorio.
Ma c’è un terreno, che Dumenil individua come comune a queste due arti. Si tratta della crudeltà, tema centrale del celebre testo di Artaud Il teatro e il suo doppio. Derrida, nella prefazione al volume, osserva che: «Il teatro della crudeltà non è una rappresentazione. È la vita stessa di ciò che è irrappresentabile». Per Dumenil è nella crudeltà che si nasconde la chiave di volta del tormentato passaggio di Artaud dal cinema al teatro. È chiaro, a suo avviso, che il funzionamento della “drammaturgia crudele” comincia a prendere forma all’inizio del 1930 sull’immagine del modello del cinema. È su quest’ultima, sulla sua capacità di imporsi allo spirito, che Artaud fonda l’efficacia del proprio teatro. Il teatro della crudeltà recupererà tutta la potenza dell’immagine del cinema. Ne Il teatro e il suo doppio, Artaud descrive un’immagine teatrale che, a tutti gli effetti, riprende la meccanica dell’immagine cinematografica e in particolare la sua funzione ipnotica attraverso la rinuncia a una rappresentazione frontale. Artaud pensa ad un teatro in cui, esattamente come nel cinema, la distanza tra spettatore e attore viene meno. È ciò che aveva affermato Benjamin Fondane quando, nel 1933, in Écrits pour le cinéma, scriveva che il teatro di Artaud non cerca che una cosa: la strada perduta del cinema.
Lorraine Dumenil, Artaud et le cinéma, Nouvelles éditions Place, Paris, 2019, pp. 121, euro 10,00.