Dopo aver edito per Gremese La cuspide di ghiaccio (2008), e prima ancora Cronache dal paesaggio (2006), ottimamente segnalati dalla critica, Giuseppe Manfridi giunge alla sua terza prova narrativa con Anja la segretaria di Dostoevskij, pubblicato da La lepre Edizioni a fine 2019, un “romanzone” di 603 pagine. A scanso di equivoci, affermo da subito che dal punto di vista del gusto personale il libro mi è piaciuto, e molto. Proprio per questo credo che sia interessante, da parte mia, puntare l’attenzione più su aspetti contestuali e compositivi, che su giudizi estetici e, appunto, di gusto, che rischiano spesso la soggettività e il relativismo.
Manfridi, che reputo tra i primissimi drammaturghi italiani di fine Novecento e inizio Millennio, di valore europeo, con questa terza prova narrativa punta molto in alto, andando ben oltre l’impostazione di scritture oggi piuttosto frequenti che affondano lo sguardo su scrittori, poeti e artisti, in genere del passato, che presentano lati misteriosi della loro esistenza: è il caso, ad esempio, di Edgardo Franzosini, con Rimbaud e la vedova (Skira, Milano, 2018), vero indagatore e detective attento della vita privata di scrittori; e anche quello di Emanuele Trevi, con, ad esempio, Sogni e favole (Ponte Alle Grazie, Firenze, 2019), dove il ricordo di figure quali Garboli e la Rosselli (e anche addirittura Metastasio via Garboli), è un rammemorare la propria formazione, il proprio apprendistato culturale. Manfridi si distanzia dai due e da altri, assumendo come protagonista della sua storia Anna Grigor’evna Snitkina, seconda moglie di Dostoevskij, e puntando l’attenzione sull’autobiografia del periodo giovanile, di quei vent’anni nei quali, nella Pietroburgo del novembre 1866, Anna, Anja, ventenne, presta la sua opera di novella e perfetta stenografa secondo il metodo più moderno, all’autore di Delitto e castigo, per la redazione finale di Il giocatore, da consegnare in una ventina di giorni a causa di un banditesco ricatto dell’editore Stellovski.
Manfridi, con vero coraggio, assecondato da una altrettanto coraggiosa casa editrice, La lepre di Roma, prende spunto dall’autobiografia di Anja (oggi disponibile presso la romana Castelvecchi, col titolo italiano Dostoevskij mio marito), in particolare dalla prima parte dove l’autrice ricorda il suo incontro con il grande scrittore, l’innamoramento, il fidanzamento, nonostante i 25 anni di differenza, e scrive un romanzo di ben 603 pagine, cosa oggi molto rara ormai in Italia. Cosicché, già autore di un testo teatrale, Anja, andato benissimo in scena nel 2006/07, Manfridi elegge una seconda volta la ragazza a protagonista addirittura di un romanzo nel quale, come recita la quarta di copertina, si dovrebbe rispondere alla domanda: «Bastano ventisei giorni a trasformare un’adolescente in una moglie?». Si, certo, bastano, e sappiamo che è stato un matrimonio tutto sommato riuscito, con figli e con discrete condizioni economiche e di salute: si capisce che Anja, leggendo la sua autobiografia ed anche alcune lettere del marito, è stata una donna intelligente, da sempre di spirito indipendente, ferma di carattere ma anche comprensiva nei riguardi del coniuge e dei suoi mali, generosa nel sopportarne vizi e abitudini negative anche caratteriali, a volte attanagliata dalla tristezza, ma comunque gelosa e capace protettrice del lavoro del grande scrittore e della sua memoria post mortem.
Come afferma Pietro Citati, non sarebbe potuto essere, però, un matrimonio fondato su un’accesa inestinguibile passione, quale poteva essere l’eventuale unione con Apollinarija Suslova, mai del tutto dimenticata dallo scrittore, il quale, però, a conti fatti ebbe sempre a dire che moglie migliore di Anja non avrebbe potuto incontrare. Manfridi, quindi, ha giustamente capito che non poteva non aprire spazi immaginativi, emozionali, mitopoietici se non fosse andato oltre i dati autobiografici redatti dalla moglie dell’illustre autore, piuttosto scarni, asciutti, e un po’ “freddi”. E bene ha fatto, pur allungando un po’ troppo il brodo, a mio parere, ad approfittare di allargare lo sguardo alla città pietroburghese, da poco fondata, ai suoi cittadini, alle architetture baroccheggianti dell’italiano Bartolomeo Rastrelli, oltrepassando i confini delle forme di genere, e approdando a volte al “romanzo storico” e d’ambiente, con qualche passaggio descrittivo un po’ troppo anch’esso baroccheggiante, a volte pleonastico, a volte troppo “pieno”.
Dal punto di vista della forma romanzo psicologico ugualmente bene ha fatto Manfridi puntando gran parte del suo lavoro immaginativo sulla figura della giovanissima Anja, quasi al limite della forma “romanzo di formazione”, pur non essendolo tale fino in fondo per la brevità della tranche de vie rappresentata (altra forma di genere naturalista), e che costituisce tutta la seconda parte del romanzo, scandendo gli incontri per la scrittura stenografica di Il giocatore della giovanissima segretaria. Piuttosto mi chiedo se non fosse stato il caso di un maggior intarsio di conflittualità tra stenografa e scrittore nelle scelte di scrittura, come d’altra parte appare nell’autobiografia di Anna. Comunque come “notomizzatore” degli stati d’animo della giovanissima segretaria (ricordo, al proposito, due recentissime opere del Nostro: Anatomia della gaffe, La lepre, Roma, 2016, e Anatomia del colpo di scena, ivi, 2017) Manfridi giunge in diversi passaggi chiave a risultati magistrali, nei quali la parola-tema assoluta non può che essere quella che chiude il libro: ANIMA. Per chi conosce l’autore da molti anni ciò non sorprende: fin dai titoli delle sue commedie e, ovviamente, dai contenuti di esse il rapporto fra anime, il “furto d’anima”, il “plagio fra anime”, e così via è un tema fondamentale e ricorrente nella drammaturgia e nel teatro di Manfridi. E anche in questo romanzo vi sono delle sottili impalpabili tracce se non di un furto o plagio psicologico, certamente di una sorta di ammaliamento, di fascinazione inevitabilmente esercitata dal maturo scrittore nei riguardi della ragazza, tra l’altro orfana di un padre adorato che, guarda caso, adorava a sua volta Dostoevskij. Lascio al lettore ipotizzare altre nuances psicocritiche che certo non mancano nel variegato, complesso romanzo manfridiano, sostenuto, tra l’altro, da un italiano standard di forte dignità espressiva e letteraria, che va anche oltre alle consuetudini attuali della «letteratura di nobile intrattenimento» (G. Simonetti); e impreziosito da una precisa, controllata variazione di registri nei magistrali dialoghi che sostanziano molta parte della vicenda.
La struttura dell’opera è tripartita, secondo lo schema antropologicamente universale: introduzione, svolgimento, conclusione; una tripartizione teatrale (drammaturgica), in cui, se volessimo, potremmo riportare autonomamente sulla scena tutte e tre le parti, opportunamente “lavorate” (accade in certi lavori di Eduardo, tipo Natale in casa Cupiello), essendo nella prima parte presentato il contesto familiare, scolastico e cittadino nel quale ad Anja viene proposto il lavoro con lo scrittore ormai famoso, e amico di artisti e scrittori; e nella terza svolgendosi la descrizione dei rapporti inter familiari in vista del fidanzamento e del matrimonio stesso. Da non dimenticare sono le pagine introduttive, un flash-back che ci riporta alla condanna al carcere del giovane scrittore “sovversivo”, subito dopo la finta fucilazione, episodi che nell’animo di Dostoevskij s’imprimono per sempre e sembrano anticipare onomasticamente la futura vicenda sentimental-coniugale.
Scrivo questo perché io credo che tutta la storia di Anja e di Fёdor Michajlovič, Manfridi l’abbia vista attraverso la lente del teatro e del cinema , come alcune parole chiave quasi di sfuggita alludono (si pensi alla posizione del volto di Anja, in un passaggio che precede l’ufficialità dell’unione, che è definita «di quinta», secondo terminologia “cinematografara”). Quando si scrive un racconto nella nostra mente abbiamo una referenzialità in genere realistica, ambientale, più o meno verosimile, credibile. Ma se scrivessimo per il teatro nella nostra mente tutto dovrebbe accadere nella dimensione (gabbia) della scena; e per il cinema la sceneggiatura ha i suoi confini nel set. Ne deriva che nel romanzo di Manfridi il rapporto narrazione-teatro-cinema è continuo, dinamico, reciproco. Ciò però porta, a mio parere, ad alcuni rischi: nel momento in cui lo sguardo dello scrittore non è più nella cornice teatrale o cinematografico, la scrittura manfridiana è fin troppo esaustiva, poco concedendo all’immaginazione del lettore: viene a mancare quel freno che la scena t’impone. Altre volte, il piano del discorso schiaccia un poco quello della storia, quando Manfridi usa la tecnica dello zoom, del particolare, del primissimo piano: allora sopravanza il gusto della notomia, a volte piuttosto freddino, un po’ come un gioco mentale, intellettualistico, che sulla pagina rischia di avvincere meno che da un palcoscenico.
Di certo, in definitiva, credo di poter affermare che Anja la segretaria di Dostoevskij, non solo è davvero un gran bel romanzo, ma è anche un’opera importante e coraggiosa, che può risultare paradigmatica per la letteratura narrativa italiana d’oggi, e a cui non fanno ombra alcuni rischi e limiti che direi addirittura inevitabili data la posta in gioco molto alta!
Giuseppe Manfridi, Anja la segretaria di Dostoevskij, La lepre Edizioni, Roma, 2019, pp. 603, euro 25,00.