Che cosa significa per il direttore artistico di un festival di spettacolo dal vivo riaprire il 15 di giugno? Che cosa si potrà fare? / Quali sono la peggiore e quale la migliore delle ipotesi possibili di riapertura per il Suo festival: c’è una condizione in particolare che ne renderebbe impossibile la realizzazione secondo la Sua vision artistica? / L’unica certezza è la riduzione del numero di posti disponibili per i vari eventi: che cosa comporterà questa condizione per gli artisti da un punto di vista economico ed artistico? Non è, per esempio, che si arriverà a fare la doppia replica magari alla metà del compenso?
Sono queste le domande che abbiamo posto ai direttori artistici di cinque realtà diverse e sparse sul territorio nazionale, che da anni svolgono un servizio culturale verso la società attraverso i loro festival di arti performative. La riapertura dei teatri prevista per il 15 giugno è una vera e propria scommessa: una prova di coraggio che comporta oneri di cui è ancora difficile misurare la portata, ma che loro sono pronti ad affrontare.
Luca Ricci, direttore artistico di Kilowatt Festival di Sansepolcro (AR)
Quella della riapertura è stata una prospettiva che non abbiamo mai perso di vista in questi mesi. Si è molto riflettuto sul fatto che questo tempo dovesse essere un tempo di studio, di approfondimento di pensiero. Credo sia stato così anche per me. Ho letto circa venti libri, abbiamo scritto uno spettacolo nuovo, abbiamo cominciato a lavorare a un nuovo libro. È stato forte questo lavoro del pensiero, meno distratto da una serie di urgenze esterne. Nello stesso tempo abbiamo anche sempre sentito una responsabilità rispetto agli obiettivi del nostro lavoro, che per me e Lucia Franchi è stata quella di incoraggiare la nostra squadra a non mollare, immaginando che quel progetto si sarebbe potuto e dovuto fare. Nessuno di noi ne aveva la certezza, ma nel momento in cui tutti siamo stati anche un po’ sorpresi dal fatto che dal 15 giugno si potesse ripartire, perché circolavano ipotesi anche più pessimistiche, noi ci siamo trovati pronti. Il dialogo con gli artisti non è mai venuto meno: mi ha molto toccato che artisti che erano in programma, e anche quelli che poi per motivi diversi non siamo riusciti a programmare, mi abbiano detto «Grazie, perché comunque abbiamo sempre parlato in questi mesi». Abbiamo pensato che fosse un pezzo del nostro dovere anche quello, la responsabilità nei confronti del mondo di cui siamo parte: ovviamente bisogna farlo seguendo delle regole, e queste comportano delle complicazioni non da poco, delle responsabilità ulteriori e nuove di cui si farebbe volentieri a meno. Anche un parrucchiere o un estetista o un commerciante o un professore che ha dovuto iniziare a fare lezione online magari senza neanche sapere come si accendeva un computer ha fatto un pezzettino della sua responsabilità: perché noi dovremmo essere diversi? Mio fratello di mestiere fa il parrucchiere, mi ha riferito che per lui è una follia lavorare con i guanti, pensa a quanto è pericoloso; se hai i guanti bagnati, non si asciugano ed entra l’acqua dentro, poi prendi il phon in mano… Ci sono tutte queste regole, ed è chiaro, alcune non sono auspicabili e alcune non sono del tutto sensate, però dico anche che bisogna provare a trasformare le difficoltà in opportunità, usando quello che si può fare. Noi avevamo 54 spettacoli, ora ne sono diventati 38. Ne sono saltati non pochi, e quei sedici annullati non sono solo spettacoli, ma relazioni, pensieri, sopralluoghi. Alcuni di quegli spettacoli non potevano rispettare quelle norme, ma la relazione con quegli artisti resta. È una tale causa di forza maggiore per cui nessuno può arrabbiarsi: nel momento in cui queste sono le condizioni a cui tutta la società deve stare, proviamo in queste condizioni a fare il fattibile. Per dire, ci sono tanti spettacoli fatti da nuclei familiari anche stretti, non solo monologhi: per esempio, abbiamo programmato uno spettacolo fatto da quattro danzatori del Sud Italia che vivono in Germania ma convivono e hanno fatto la quarantena insieme. Ci sono spettacoli in cui magari alcuni registi e coreografi hanno riadattato dei pezzi di spettacoli in cui era previsto il contatto, che magari fanno indossare la mascherina per cinque minuti di spettacolo: non è bellissimo, lo sappiamo, ma credo che la creatività sia anche la flessibilità. Noi il 20 aprile avremmo dovuto debuttare a Vienna con una coproduzione di una compagnia austriaca, era un lavoro di teatro immersivo: ai primi di marzo era chiaro che non si sarebbe potuto fare, e modificando quel progetto, rimasto di teatro immersivo, realizzandolo su una piattaforma di videoconferenza, The Kreisky Test di Nesterval, è riuscito a fare 42 repliche e più di 600 biglietti, con spettatori connessi da 21 paesi, un biglietto di 23 euro con la possibilità di acquistare un ticket di solidarietà a 39 euro (e sono 140 persone che lo hanno pagato!). Ovviamente il teatro online non è la soluzione, ma alle volte invece di piangersi addosso sarebbe il caso di cogliere le situazioni, perché fare delle virate di pensiero apre a delle prospettive. Se lo stesso spettacolo fosse stato fatto ad aprile a Vienna non avremmo avuto spettatori da 21 paesi, forse neanche avremmo avuto 600 spettatori o i ticket di solidarietà (ma non per il ricavo, perché quello è un simbolo, un segno di azione per dire «in questo momento è importante che voi ci siate»). Noi stiamo dando un segnale, il segnale di qualcosa che riparte, e magari invoglia anche gli altri a fare qualcosa. Un altro esempio: noi avremo Roberto Latini come padrino di questa edizione di Kilowatt Festival. Con lui era previsto tra le altre cose un laboratorio con 15 attori in funzione di un esito scenico, e non si poteva fare: Roberto mi ha chiamato e mi ha chiesto se poteva convertire il laboratorio per attori in un laboratorio di drammaturgia. Così, invece di lavorare con 15 attori, lavorerà con 15 drammaturghi: non è la stessa cosa, però per 15 drammaturghi si apre un’opportunità che altrimenti non ci sarebbe stata.
Per quanto riguarda l’eventualità che dicevi, che alcuni provano a chiedere agli artisti la doppia replica al prezzo dello stesso cachet, non è corretta, noi non l’abbiamo fatta e non la faremo. Chiaramente il fatto che rientrino meno incassi è un problema, ma riconosciamoci anche una cosa: noi facciamo un certo tipo di teatro legato all’innovazione e alla ricerca, non ci reggiamo sui biglietti, ma sui finanziamenti pubblici, che riconoscono il valore di quello che facciamo. Avere 15.000 euro in meno di biglietti, certo, non fa piacere, ma non falliremo per questo. Il rischio è molto più forte per realtà come il Teatro Sistina, per esempio, che si reggono molto più di noi sull’aspetto commerciale. Ciò che vedo più preoccupante in questo momento è questo senso di inedia che prende alcuni pezzi del nostro settore, il ragionamento secondo il quale lo Stato ci dà l’80% del Fus a fondo perduto, allora possiamo anche non far nulla, tanto nulla cambia. Questo da un lato lo si comprende: c’è una difficoltà, lo Stato ti dice che ti sta vicino, è giusto. Mi piacerebbe invece vedere un settore che reagisce a una difficoltà e dice «facciamo quello è possibile fare» nel rispetto di tutti: la nostra funzione è anche quella di aiutare gli artisti a fare il loro lavoro, quindi a creare, a vivere, non sfruttandoli, ma stando loro vicino. Quando sento che si fa il Napoli Teatro Festival Italia, quando sento che si fa Santarcangelo Festival, quando sento che si fa il Drodesera, in tante forme, magari un po’ diverse rispetto a quelle pensate, per me son segnali belli. Sono persone che non prendono quell’80% a fondo perduto e si mettono sedute perché gli stipendi sono garantiti, ma vogliono anche restituire qualcosa in senso creativo e culturale.
Emilio Genazzini, direttore artistico del Festival Internazionale di Teatro Urbano di Roma
Noi abbiamo concorso all’Estate Romana, stiamo quindi aspettando i risultati che ci saranno a fine giugno. La scadenza di presentazione era il 29 aprile, gli scenari si conoscevano già e quindi ho adattato il festival alla situazione contingente. II festival è di teatro urbano: ho fatto il primo intervento di teatro urbano nel 1989 nella stazione della metropolitana di Roma Termini; ora “teatro urbano” è una definizione che si usa normalmente per denotare il teatro di strada, il teatro all’aperto, ma allora era una situazione assolutamente specifica, che ha iniziato la mia compagnia Abraxa Teatro. In questo senso, noi non snaturiamo il festival se adattiamo la nostra professionalità ad alcune delle problematiche presenti in questa emergenza. Molti degli spettacoli possono essere frazionabili, portati a gruppi di spettatori riuniti in una maniera specifica, possono essere ascoltati anche semplicemente dai balconi, dalle finestre, perché il festival si fa al Giardino degli Aranci e all’Isola Farnese. La condizione impossibile sarebbe stata la necessità di far indossare le mascherine agli attori, ma per fortuna è stata superata: sarebbe stato un ostacolo assurdo. Le altre condizioni da superare sono soprattutto quelle economiche. Ci è stato richiesto di fare dei preventivi basati sull’Estate Romana, per cui io ho programmato gli spettacoli senza avere cognizione dei costi che riguardano la sanificazione e via discorrendo: non ho potuto fare un preventivo ad hoc. Dato che si parla di rimodulazione, bisogna capire in che termini corrisponde alla riapertura reale: per esempio, ho presentato sette spettacoli, ma se vinco probabilmente ne faremo sei e l’importo di uno potrebbe essere volto a pagare la sanificazione o un personale specifico per gestire questa situazione a livello logistico e far rispettare al pubblico le misure di sicurezza sanitaria. Per me è assolutamente importante poter continuare a portare cultura, è la base per superare l’emergenza e la paura. Le persone devono tornare a uscire e avere dei momenti di condivisione, in cui star insieme, magari a distanza, ma sempre insieme. Altrimenti ristagna tutto in una situazione di isolamento, portando a una produzione di pensiero errato. Per quanto riguarda gli artisti, è chiaro che anche confrontandomi con dei colleghi emerge che molti di noi siano disposti a fare più spettacoli guadagnando la cifra di uno solo pur di poter ricominciare. Il 15 giugno è sicuramente una data molto dura per i teatri, quelli al chiuso. Perché il costo dell’affitto, delle bollette, è sempre lo stesso e si può utilizzare solo un numero di posti limitato. Senza parlare dei costi per la sanificazione. Io sono vicepresidente della Fed.It.Art, Federazione Italiana Artisti, che sta portando avanti una serie di azioni socio-culturali che conducono verso delle migliorie al nostro sistema, e faccio parte anche del direttivo dell’ANAP, che è l’Associazione Nazionale Arti Performative. Per cui, in base a questo dico che i teatri al chiuso hanno una grandissima difficoltà a riaprire dal 15 giugno, perché in questa maniera lo Stato non si trova più nella condizione di dover dare ammortizzatori sociali, ma la verità è che i teatri o non riaprono, oppure, se anche ci riescono, devono farlo superando grandissime difficoltà, perché i guadagni non saranno commisurati alle spese e le compagnie dovranno decidere se partecipare o meno. Quello che sento è comunque la voglia di riprendere e di trovare una situazione nuova, piuttosto che di tornare a una situazione precedente.
Michele Losi (Campsirago), direttore artistico de Il Giardino delle Esperidi Festival a Colle Brianza, Ello, Olgiate Molgora, Olginate (LC)
Riaprire, nel nostro caso il 21 giugno con due laboratori e il 27 con il festival significa dal punto di vista politico, per noi, manifestare una necessità di incontro con il pubblico dopo mesi in cui è mancato lo spettacolo dal vivo e nello stesso tempo dare l’opportunità ad artisti, tecnici e operatori dello spettacolo dal vivo di riprendere a lavorare. Dal punto di vista poetico, invece, significa ridisegnare completamente un pensiero rispetto alla costruzione di un festival e alla costruzione di una relazione con le arti performative dal vivo e con le azioni che si possono costruire. Significa anche essere pronti a risignificare tutto e a mettersi in una costante relazione con gli artisti, con le istituzioni e con il pubblico di cittadini. Detto questo, è un po’ strano sentirsi gli ultimi a poter riaprire, dopo ristoranti, pub, palestre e altri settori. Una condizione questa che ci fa riflettere. Tutto il nostro festival quest’anno si svolge all’aperto e nella natura, i biglietti saranno acquistabili solo in prevendita online e i posti saranno limitati per permettere il distanziamento previsto dalla legge. Tutte le condizioni di lavoro di artisti e tecnici rispetteranno le normative vigenti. Non ci saranno rinfreschi, social dinner né nessuna forma di somministrazione di cibo e bevande. Ogni artista e operatore del festival avrà a disposizione una stanza singola per dormire. Al pubblico verrà chiesto di indossare sempre mascherina e rispettare i protocolli regionali e governativi. Non penso che ci sia qualcosa che possa rendere impossibile lo svolgimento del nostro festival, nel senso che tutto è materia di sperimentazione, sia sul palcoscenico sia fuori con il pubblico. La sicurezza degli spettatori, degli operatori e degli artisti è per noi la priorità. Le normative diventano per noi sperimentazione, da farsi nel rispetto della sicurezza di tutti. Se invece il controllo delle normative venisse interpretato come strumento di repressione e di censura, allora ci sarebbe un problema di diritti civili, diritti del lavoro, di libertà di espressione.
Esiste un problema economico, un enorme problema economico, perché il pubblico dovrà essere più che dimezzato. La nostra scelta è stata quella di non dimezzare i compensi alle compagnie e quindi, di fatto, di realizzare un festival che sarà in perdita. Ma realizzare questo festival con queste condizioni economiche è una scelta di carattere poetico e politico. È qualcosa di necessario, che per noi, ovvero per un piccolo e breve festival di nove giorni, è ancora sostenibile. Non lo sarebbe di certo a lungo termine o per un’intera stagione teatrale.
Clemente Tafuri (Teatro Akropolis), tra i curatori di FuoriFormato – Festival internazionale di danza e videodanza, e codirettore artistico del festival Testimonianze ricerca azioni di Genova
La riapertura al 15 giugno è una buona notizia rispetto a quelle che circolavano all’inizio dell’emergenza e che volevano le riaperture dei teatri a fine anno. La cosa più preoccupante è che chi ha scritto le linee guida ha dimenticato che almeno i due terzi delle produzioni non possono conformarsi all’uso della mascherina o al distanziamento in scena. Una parte inoltre dei lavori non potrà usufruire dello streaming. E questo perché la performance intesa come approccio all’arte teatrale è per sua natura, nella maggioranza dei casi, estranea a un rapporto traslato nel tempo e nello spazio tra i performer e tra performer e spettatori. Quello che per ora si potrà fare è ospitare spettacoli che rispondano alla normativa, nella speranza che i tavoli tecnici rimettano mano alle linee guida utilizzando uno sguardo più consapevole della molteplicità del settore. Per quel che riguarda FuoriFormato, abbiamo emanato una call dando agli artisti la possibilità di presentare due lavori (nelle precedenti edizioni si poteva presentare un solo lavoro) sicuri che nella loro scelta possano contemplare almeno una proposta che rispetti le norme e una proposta “più libera”. Ci auguriamo che chi si sta occupando del settore dello spettacolo dimostri una sensibilità almeno pari a coloro che hanno lavorato ai tavoli tecnici che hanno gestito le sorti del campionato di calcio o delle funzioni religiose. Per FuoriFormato abbiamo comunque previsto l’edizione totalmente in spazi aperti. Il festival di Teatro Akropolis a novembre, Testimonianze ricerca azioni, manterrà invece la parte dedicata a convegni e seminari, trasmessi su piattaforme web. Abbiamo dovuto ridimensionare il numero di spettacoli, ma l’identità culturale e artistica dell’iniziativa sarà preservata. Testimonianze ricerca azioni si occupa prevalentemente di performance e studi sulla performance. I problemi maggiori, quindi, riguardano la prossimità degli artisti in scena. Abbiamo rimodulato la programmazione in coerenza con le prescrizioni di legge, senza ovviamente chiedere agli artisti di intervenire sul loro lavoro per adattarlo. Teatro Akropolis produrrà dei materiali video che saranno presentati al festival e che avranno come oggetto il lavoro di alcuni artisti. Non si tratta di streaming, ma di opere autonome, documentari o opere di videoarte, che avranno come ispirazione la ricerca di alcuni artisti. La peggiore ipotesi possibile di riapertura per FuoriFormato è proprio quella attuale: potremo selezionare lavori che prevedano un solo danzatore in scena o lavori nati già con il distanziamento tra gli artisti; la migliore è che nelle prossime settimane si possa derogare al distanziamento tra gli artisti sulla scena. Ma in ogni caso il problema di fondo permane. Nessuno si è ancora sbilanciato nel dire che questo settore è talmente variegato da rendere impossibile l’attuazione di strategie di sistema. Bisogna avere uno sguardo che non si dimentichi della complessità, delle fragilità, delle necessità dei modi così diversi di intendere e frequentare il lavoro sulla scena, ma questo non è un problema legato al virus, questo è un problema che precede la pandemia. C’è da augurarsi che questa crisi affini le sensibilità degli amministratori. Bisognerebbe avere una certa dose di ottimismo. Vedremo…
FuoriFormato è un festival ad ingresso gratuito. Pertanto non prevedendo incassi, questi non incidono sul numero degli spettacoli che saranno programmati, né sui cachet degli artisti, che sono rimasti invariati dallo scorso anno. Naturalmente a livello di impatto sul territorio, potendo far entrare meno pubblico di quello usuale, la perdita è sostanziale, ma annullare il festival sarebbe stato peggio da questo punto di vista. Pertanto, insieme al Comune di Genova, a Rete Danzacontempoligure e ad Augenblick, le altre due realtà che coordinano il festival, abbiamo deciso di dare comunque un segnale e di portare avanti l’iniziativa. Testimonianze ricerca azioni dovrà invece fare i conti con una sensibile riduzione del pubblico pagante e spero che questo problema, come altri, saranno affrontati e risolti con interventi significativi da parte di chi sostiene l’iniziativa, senza far ricadere sugli artisti e sulle strutture gli oneri di questa perdita. Dobbiamo mantenere vivo il senso delle iniziative che portiamo avanti, anche di fronte a una situazione imprevista e drammatica come questa. Penso che proprio questa sia la sfida che siamo chiamati a sostenere. E potremo farlo se i diversi livelli dell’amministrazione si faranno carico delle rispettive differenze che interessano il nostro intero settore. Non esiste una soluzione adatta a tutti. Pensare che sia così significa inevitabilmente fare gli interessi di chi ha sempre gestito le risorse maggiori.
Compagnia Habitas, direzione artistica del Festival CastellinAria di Alvito (FR)
Dal punto di vista organizzativo CastellinAria, tenendo conto dei protocolli di sicurezza, non si potrà realizzare senza il supporto economico delle istituzioni. Da un punto di vista creativo, invece, le limitazioni imposte a seguito dell’emergenza sanitaria – soprattutto riguardo il distanziamento sociale – possono diventare contenuto artistico, immaginando azioni collettive che trasformino la regola in una modalità alternativa di riunirsi.
La migliore delle ipotesi è un supporto forte da parte delle istituzioni, nella speranza che inseriscano lo spettacolo dal vivo tra i punti cardine di una ripartenza che sia votata anche all’“economia culturale”, insieme all’augurio di una partecipazione del pubblico, nel pieno rispetto delle regole vigenti, spontanea e sentita, nell’intento avviato gli scorsi anni ma che goda adesso di stimoli diversi, di vivere la manifestazione con forte spirito comunitario.
La peggiore delle ipotesi è l’impossibilità, soprattutto economica, di realizzazione del Festival e il mancato interesse da parte del pubblico per motivi legati alle conseguenze della pandemia, come la paura. Riteniamo in ogni caso la formula dello streaming una soluzione non compatibile con la natura intrinseca di CastellinAria.
La riduzione del pubblico non deve essere collegata in nessun modo alla retribuzione degli artisti. Il lavoro da fare precede il discorso: bisogna attivarsi per ricercare e destinare risorse economiche sia ai nuovi protocolli di sicurezza sia, soprattutto, all’offerta artistica. Bisogna garantire la possibilità a tutte le organizzazioni teatrali, grandi o piccole che siano, di avere i giusti strumenti per generare azioni culturali, anche e soprattutto nei territori che ne hanno più bisogno.
Una progettazione consapevole, l’inter-settorialità e il dialogo con le istituzioni potrebbero favorire nuove pratiche anche di sostenibilità e far sì che tutti i lavoratori dello spettacolo siano retribuiti nel rispetto della dignità lavorativa.
CastellinAria ha garantito, e continuerà a farlo, cachet agli artisti ospiti a prescindere dal numero di spettatori che partecipano al singolo evento.