“Sarà la prova generale della nostra libertà: un festival della sintonia e dell’ascolto”: è così che il direttore artistico Ruggero Cappuccio definisce la tredicesima edizione del Napoli Teatro Festival Italia che si svolgerà tra Napoli e altre città della Campania (Salerno, Solofra, Pietrelcina e Santa Maria Capua Vetere), dal 1° al 31 luglio per la sua parte italiana, proseguendo poi la sua programmazione con la sezione Internazionale, che sarà presentata in autunno. Un festival che ha lottato strenuamente per riuscire a partire, nonostante l’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus, e realizzato con il forte sostegno della Regione Campania e organizzato dalla Fondazione Campania dei Festival presieduta da Alessandro Barbano.
Nell’arco di un intero mese, quindi, si svolgeranno 130 eventi distribuiti in 19 luoghi tutti all’aperto con una sola eccezione, il Teatro di San Carlo dove il 26 luglio andrà in scena “Concerto tra scrittura e trascrittura” di Roberto De Simone, un lavoro a cui lo stesso Cappuccio tiene moltissimo.
Ho raggiunto telefonicamente il direttore artistico che, con il suo entusiasmo e la sua arte, mi ha raccontato questa edizione, nata addirittura tre volte.
Che festival sarà quello targato 2020?
Sarà un festival della sintonia e dell’ascolto. Della sintonia per infinite necessità connesse all’importanza della cultura. Sappiamo tutti ormai che l’Italia è un Paese in cui purtroppo c’è un grosso problema culturale perché l’italiano medio considera l’arte dell’attore alla stregua né più né meno di un hobby. Durante il lockdown però questa arte è stata essenziale alla vita di ognuno di noi: proviamo a immaginare cosa sarebbe potuta essere la nostra quarantena senza il teatro in tv, i film e le serie televisive, i musei visitabili online, le maratone letterarie in streaming e quant’altro. Sarebbe stato impensabile! Oggi, che l’emergenza è quasi archiviata, l’attore, che veniva considerato imprescindibile davanti alla morte, viene scaricato senza troppi problemi. Per questo, oltre che essere un festival della sintonia, sarà anche un festival dell’ascolto, perché è fondamentale sintonizzarsi su queste frequenze e ascoltare questo mondo che non è fatto solo di attori, ma di elettricisti, tecnici del suono, sarte, attrezzisti, musicisti, cioè un esercito di lavoratori che in questo momento è letteralmente in ginocchio.
In che modo sarà possibile riempire questo vuoto culturale e far sì che gli attori non vengano più “defenestrati”?
Si risolve in due modi: da una parte c’è una soluzione culturale che, com’è immaginabile, è attuabile nel lungo periodo perché ha a che fare con la formazione e con l’educazione; dall’altra c’è una soluzione tecnica, ovvero è un problema che va affrontato nelle sedi opportune (il che significa il Ministero del Lavoro), perché, insisto, gli attori, così come tutte le persone coinvolte nel mondo dell’arte e dello spettacolo, devono essere trattati come lavoratori e non come individui fortunati che svolgono questo compito per hobby. Ci vorrebbe dunque un’idea, ma la grande difficoltà delle idee è che durano poco. La vera idea, quella in grado di cambiare realmente il corso delle cose, è quella che dura nel tempo, cioè l’idea che poi viene realizzata. E qual è l’idea che dura? Quella che è amata; ma non si può amare qualcosa se non si ha del sentimento verso questa cosa. Per uscire da questa situazione occorre dunque il sentimento che non è alla portata di tutti. Ognuno di noi nasce con delle pulsioni che, attraverso un processo di conoscenza di sé (processo che purtroppo nelle scuole non è assolutamente approfondito) possono portare a provare delle emozioni, le quali si trasformano in sentimento. In questo il teatro è una scuola fondamentale, proprio perché aiuta a conoscere l’individuo.
A causa della emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus questa edizione ha subito arresti e ripartenze che vi hanno costretto a riorganizzarlo per ben tre volte: come ci siete riusciti?
Ci siamo messi in ascolto. Anche per questo è un festival dell’ascolto e noi, in questi mesi di preparazione ci siamo messi in ascolto del vento del Covid per capire quale direzione prendere, proprio come i marinai. Non è stato semplice ricalendarizzare tutti gli eventi che coinvolgono tantissimi artisti e compagnie per un numero complessivo di persone coinvolte impressionante. Il senso della difficoltà di quanto fatto si è espresso anche nel linguaggio: in quel periodo di incertezza non potevamo usare il tempo presente indicativo né il futuro, ma solo il condizionale. Nonostante ciò, ci siamo riusciti e non è stato un miracolo, ma puro spirito di servizio.
Perché non è stato un miracolo ma spirito di servizio?
Perché se non fosse stato così non avremmo continuato ad applicare l’oculata politica di prezzi con biglietti popolari (da 8 a 5 euro) e agevolazioni assolute per le fasce sociali più deboli. Siamo un organismo di crescita culturale e sociale e cerchiamo di favorire la partecipazione del pubblico. E poi perché i cittadini devono pagare un prezzo elevato per assistere a un evento organizzato con soldi pubblici? Quante volte devono pagarlo questo evento? I ricchi non sono interessati all’arte se non per puro scopo commerciale. La cultura da sempre interessa chi non ha soldi e noi è a loro che pensiamo, così come ai pensionati. Il pensionato è solo perché non riceve messaggi di partecipazione alla vita. Il nostro festival è anche per loro.
In conferenza stampa ha affermato: “Gli esseri umani sono andati fuori tempo”: cos’è il tempo per Ruggero Cappuccio e quanto è importante?
Il tempo è un perenne presente. Faccio un esempio. Quando siamo su un autobus o su un treno ci capita spesso di sobbalzare alla nostra fermata perché presi dai nostri pensieri. Non ci accorgiamo del tragitto perché pensiamo a qualcosa che abbiamo fatto oppure siamo concentrati su ciò che faremo perdendoci ciò che stiamo vivendo in quel momento, ovvero il nostro presente. Se il passato è qualcosa che ormai non esiste più e il futuro è una proiezione di ciò che avverrà o che vorremmo che accadesse, il presente è ciò che ci manca. Del resto lo diceva Jung: avere consapevolezza di sé e del momento in cui si è ci fa immergere nel presente. Non è facile, ci vuole allenamento ed esercizio.
E il teatro in che tempo è?
Il teatro è un presente perpetuo, perché prende le forme del passato facendole rivivere nel presente, dalla tragedia greca passando per Molière o Shakespeare. L’autore quando scrive mette su carta un suo sogno e chiede agli attori di sognarlo per la seconda volta. Gli attori poi chiedono al pubblico di sognarlo per la terza volta e il pubblico a sua volta sogna un sogno tutto suo. Appropriarsi del presente è una forma importantissima di vivere il teatro che fa porre delle domande, prima fra tutte: qual è lo scopo della vita? Rispondere a questa domanda non fa che riportarci a quel “conosci te stesso” di cui parlavamo prima. Ed ecco che tutto si ricongiunge, chiudendo il cerchio.