Tutto è rarefatto. Come la pallina di un flipper ho vissuto la mia infanzia tra Roma, Torino e la provincia di Reggio Calabria. Da una cornice di legno chiaro, una vecchia foto, ruvida e un po’ sfocata, rimanda l’immagine di un bambino “stranamente biondo”. Lo sono stato fino a quattro anni e penso che questa sia la cosa più bizzarra della mia vita. Oggi il riflesso nello specchio è decisamente cambiato: un Otello contemporaneo sbarcato a Reggio Emilia, non a Cipro. Sono cresciuto viaggiando. Non c’è in me un luogo, “il luogo” dei ricordi, ma un insieme di forti sensazioni che uniscono i primi passi. Tutto è rarefatto, ancora. Vedo città, ambienti e strade. Poi c’è il mare, sì, il mare, uno scoglio e una piccola mano.
Avevo undici anni e studiavo le arti marziali contemporaneamente alla danza. Entrambe mi davano la possibilità di costruire la mia stabilità e fortificare l’equilibrio attraverso un movimento che fosse l’espressione del moto interiore. Un giorno, camminando per i boschi piemontesi, ho capito. In silenzio, da solo, ho scelto la danza. La sentivo più affine alla mia sensibilità e al mio modo di essere creativo. L’associazione con la musica e il contatto umano reale si rivelarono, poi, fondamentali e il tempo mi ha dato ragione: il bisogno di esprimermi era totalmente colmato. Nelle arti marziali sentivo il momento di maggiore espressività nel combattimento ma, proprio durante lo scontro, ho compreso che non provavo lo stesso brivido di quando danzavo. M’interessava il movimento e il modo in cui percepivo quello che mi circondava. Camminavo, avevo bisogno di muovermi e capirmi. I piedi nudi cercavano solo il fluire di un’energia svincolata dalla tecnica. Tutto è stato un capitolo insolito. Mia madre era una ballerina ma aveva rinunciato alla carriera pur non distaccandosi mai dall’interesse per la musica, l’arte e il balletto: fu lei a trasmettermi il fuoco di una grande passione e le arti marziali erano state scelte per altri motivi. Sì, in mezzo a quei tronchi, passeggiando scalzo a contatto con la natura, avevo scelto.
La mattina uscivo da casa molto presto. Era ancora buio quando andavo in stazione e riuscivo a vedere l’ultima stella. Poi, il treno partiva. Raggiungevo Torino per studiare al Teatro Nuovo, dove ho avuto la possibilità di crescere velocemente formandomi con prestigiosi docenti come Ramona De Saa, tecnica cubana, e Daniela Chianini della scuola di Marika Bezobrazova. Passavo l’intera giornata nelle sale e la sera, quando finivo, era di nuovo notte. Il treno mi riportava a casa e, scendendo alla stazione, rivedevo lo stesso cielo e la stessa – ora, prima – stella non annunciava il mattino ma la quiete della notte. Il cielo per me è un grande tema. Ogni volta che finisco di vedere un mio spettacolo o sono a teatro per un lavoro che mi coinvolge personalmente, ritorno un po’ bambino e lo guardo ancora, fuori. È per me un punto fermo, un ricordo che rivive e non mi abbandona mai. In seguito, gli anni Novanta mi hanno visto partecipare a importanti competizioni internazionali: Vignale Danza e Concorso Città di Rieti premiarono il mio lavoro di giovane danzatore.
Dopo la leva obbligatoria, scelsi di prendere le distanze dalla danza, di rinunciare a quegli impulsi che per anni avevano guidato i miei passi. Decisi di entrare nell’Arma dei Carabinieri. Era il senso del dovere a guidarmi e non riesco a spiegare se fosse una decisione consapevole o solo una conseguenza cui non mi sono opposto. Conseguenza di cosa? Il senso di responsabilità verso le reali possibilità economiche della mia famiglia. Ho sempre lavorato per poter coltivare le mie passioni e realizzare i miei sogni; non volevo sovraccaricare i miei genitori e, diventare carabiniere, in quel periodo, significava sicurezza economica. Ma i carboni continuavano ad ardere sotto un apparente cumulo di cenere. Sentivo di non ricordare più nulla del mio corpo. Forse, mi ero illuso di averlo ascoltato in profondità, ma non era così. La mia anima era inquinata e non trovavo la pace, quella serenità che è comunque necessaria per qualsiasi spirito ribelle. Tornai a camminare, tornai a essere quel bambino. A piedi nudi, di nuovo, lungo la sponda di un fiume avevo bisogno di muovermi. Lentamente all’inizio, poi sempre con più enfasi ed energia fino a quando il mucchio grigio sparì e la fiamma tornò a bruciare. Ancora una volta, la seconda, scelsi Tersicore nella mia vita.
Immaginavo il mio futuro al Balletto di Toscana. La compagnia, di cui facevo parte, era diretta da Cristina Bozzolini. Successivamente, a vent’anni, l’incontro con il coreografo Mauro Bigonzetti si rivelò fondamentale per il mio viaggio. Mi scelse. Bigonzetti è stato direttore artistico della compagnia Aterballetto dal 1997 al 2008 e coreografo principale della stessa fino al 2013. Ricordo le tante ore di lavoro, lo scambio artistico che c’era tra noi e la complicità, pazientemente costruita, in sala e in scena. Ammiravo e mi rispecchiavo nelle sue creazioni; il suo andare “oltre” l’intenzione coreografica e la sua umanità mi hanno sempre affascinato e dato sicurezza, perché mi permettevano di sentirmi forte nell’esprimere la versione migliore di me stesso. Ho sempre pensato – e oggi ne sono più sicuro – che il legame che s’instaura tra interprete e coreografo vada oltre le parole; la fiducia e la stima reciproca si costruiscono lentamente, donandosi con generosità da entrambe le parti, anche in silenzio. In quegli anni eravamo un “corpo unico”, nessuno primeggiava sull’altro e tutti ci sentivamo responsabili di tutto. Insomma, eravamo sulla stessa barca, ognuno timoniere di se stesso e degli altri.
La strada percorsa come danzatore è sicuramente riconducibile alla compagnia Aterballetto e alle coreografie di Mauro Bigonzetti, fino al suo Canto per Orfeo (2013). Quest’ultimo lavoro con lui mi ha segnato, molte parti della mia vita sono state scardinate. L’ho affrontato con una maturità completamente diversa rispetto al passato. Ho interpretato, dal 2001, tutte le principali opere del repertorio della compagnia misurandomi non solo con personalità come il coreografo William Forsythe ma, anche, avendo il privilegio di incontrare il lavoro Jiří Kylián e Ohad Naharin. A Bigonzetti devo anche la scoperta della mia creatività; mi ha incoraggiato, mentre ero il giovane interprete dei suoi lavori, a guardarmi dentro e a raccontare tramite i gesti quello che sentivo fluire costantemente. Oggi potrei affermare che, forse, se non fosse stata per la sua intuizione io non avrei mai iniziato a coreografare. Ricordo che mi osservava in sala, come dalla fessura dello spioncino di una porta, durante le improvvisazioni e, probabilmente, in quei frammenti di tempo in cui si è soli con se stessi, ha capito la mia particolare attitudine alla ricerca del movimento e all’autonomia della personalità che aveva di fronte: mi ha dato fiducia all’inizio di un nuovo percorso. Sentivo la necessità di dare e, come un fiume in piena, questo bisogno mi fa ricordare che, in fin dei conti, è sotto il segno del grande insegnamento di Cristina Bozzolini che sono nato e cresciuto. Lei non si stancava mai di ripeterci che il danzatore deve essere insaziabile, prodigo, disponibile a “dare” e a “ricevere”. Tutto con la finalità di far crescere e migliorare la Danza.
L’inizio della mia ricerca coreografica risale al 2004. Danzavo ancora quando ho cominciato a creare, non solo per Aterballetto. In quello stesso anno è nato Saminas, interpretato dal mio collega Roberto Zamorano; del 2005 è Pororoca, sempre per la compagnia diretta da Bigonzetti che mi diede, qualche anno dopo, l’opportunità di collaborare con Scapino Ballet Rotterdam e vedere in scena, nel 2008, il “mio” Hasmu, respiro della terra in cui affondano le mie origini. Nel 2014 Nude anime, lavoro dedicato alle donne e cucito addosso alle danzatrici di Aterballetto, ha rappresentato il crocevia, la probabile svolta e la crescita nella mia sperimentazione. Dell’esperienza palermitana, invece, ho un doppio ricordo pieno di soddisfazione e umanità: Plasma (2016) e Quadro Ravel (2019). Con il sovrintendente del Teatro Massimo Francesco Giambrone e con il direttore del Corpo di Ballo, Marco Bellone, si è instaurato un rapporto profondo e sincero. Spero di riabbracciare tutti presto.
L’incontro con Forsythe ha lasciato in me un segno indelebile. La sua frase «Show me your future with your back» («Mostrami il tuo futuro attraverso la tua schiena») risuona nella mia mente come un prezioso mantra. Ha incrociato la mia strada nel 2002, durante la ripresa di Steptext, una creazione per Aterballetto datata 1985. Tridimensionalità del movimento, nuovo gesto, diverso modo di guardare e superamento costante dei propri limiti sono stati di vitale importanza per la mia ricerca. È questo che desidero trasmettere ai giovani con cui ho la fortuna di confrontarmi; i diversi progetti formativi pensati per loro negli ultimi anni, sono, insieme alla coreografia, un impegno e uno stimolo costante nella mia vita.
In ogni lavoro, sia come interprete sia come coreografo, ho trovato e trovo qualcosa che mi riguarda. È difficile fare una selezione di cosa mi rappresenti di più. Come danzatore ho sempre avuto la prerogativa di fare mio lo spettacolo e di trovare al suo interno, e nei miei movimenti, qualcosa che fosse veramente significativo. L’affinità tra interprete e coreografo è tutto. Da creatore è ancora più difficile individuare cosa rispecchi di più il mio essere. Mi piace ricordare un’espressione di Balanchine, il quale affermava che non esistono tante coreografie ma, in realtà, quella che vive è una, dall’inizio fino alla morte. Ogni lavoro che ho visto nascere – Nine Bells del 2018 (produzione Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto), Bolero per il Teatro Massimo di Palermo e L’Albero dei sogni per la compagnia del Balletto di Roma, 2019, solo per citarne alcuni tra i più recenti – mi ritrae in qualche modo. Vivo nella continua insofferenza di non essere appagato fino in fondo da quello che realizzo. Tutto mi appartiene, tutto è comunicazione di quello che ho dentro. A volte penso di “non sapere”: è molto difficile per me e, forse, per tutti quelli che cercano, riuscire a “sistemare”, in qualche modo, quello che proviamo quando danziamo, creiamo o ci immergiamo in un certo tipo di energia. Entriamo in una totalità che, in realtà, è come se non ci appartenesse. Penso di essere un filtro attraverso il quale la danza si esprime. Non sono io, ma è qualcosa che attraverso me ha la sua epifania.
Ho sempre avuto un confronto forte con gli elementi della natura perché mi mettono in uno stato di contemplazione. Il viaggio quotidiano, insieme a quello che ho fatto dentro di me nel tempo in cui danzavo e, oggi, mentre sperimento, nel teatro e nella danza, non ha confini; invece il tragitto del mio corpo sì, quello è limitato. Vivo nel binomio tra quello che sono fuori e ciò che sento dentro e “l’appuntamento” con quel mare, quello scoglio e quella mano ha da sempre scandito le tappe del mio cammino. Lui, il sasso, continua a vedere una parte di me mentre io, da sempre, lo osservo. Tornavo, ancora e ancora… ci torno e continuerò a farlo. Pur nella diversità abbiamo un mondo comune: l’energia che riceve dal mare tutte le volte che ne è inondato è eterna, com’è immortale il mio amore per il teatro e la vita.
Mi piace venire su questo scoglio, al mare, in Calabria. Arrivo e appoggio la mano su un angolo, ogni volta. Lui non è cambiato mentre le mie dita sono cresciute; le vedo maturare mentre il sasso rimarrà così, anche dopo di me. L’acqua scava la pietra. Io, uomo, scavo dentro di me per cercare l’armonia o la strada che porta a essa: questa è l’espressione più profonda delle nostre radici. Lo penso e glielo dico, sempre. Poi, il cammino riprende.
Valerio Longo, performer e coreografo internazionale, partecipa alle produzioni di numerose compagnie (Teatro Nuovo di Torino, Danza Prospettiva di Vittorio Biagi ecc.) lavorando, tra gli altri, anche con i coreografi Eugenio Scigliano e Fabrizio Monteverde. Parallelamente all’attività di danzatore avvia la propria ricerca coreografica, creando per molteplici realtà italiane ed estere. Nel febbraio 2018 riceve a Firenze il Premio alla Carriera Danzainfiera. Nel corso della sua attività ha collaborato con musicisti, compositori, registi, cantanti, artisti visivi, scenografi, fotografi e stilisti. Dal 2013 si dedica alla formazione e alla direzione artistica di numerosi eventi. Dal 2018 è coreografo associato dell’agenzia Performazioni Cinetiche e coideatore di numerosi eventi coreutici. Nell’estate 2019 è coreografo ospite presso il Festival Colours di Stoccarda diretto da Eric Gauthier. Il 2020 si apre con il nuovo progetto Il Piccolo Re dei Fiori, fiaba per musica, ombre e danza, coproduzione Balletto di Roma e Teatro Gioco Vita. Da settembre 2018 è ideatore, direttore artistico e coreografo del Percorso RADICI, sharing coreografico con sede centrale a Bologna; percorso che si sviluppa a livello nazionale in numerose sedi satellite.