La questione se le attività artistiche e intellettuali siano “utili” alla società torna periodicamente ad essere posta dagli artisti o intellettuali, ora per sincera auto-critica, ora a causa di sollecitazioni o attacchi provenienti dall’esterno. Due sono gli atteggiamenti estremi che vengono di norma adottati. Vi è anzitutto la linea difensiva che invoca con orgoglio la teoria dell’ ”inutilità” dell’arte e del pensiero. Artisti e intellettuali creano qualcosa di superiore ai beni materiali, sicché il valore della loro attività non va misurata sulla base della funzionalità e produttività sociale. All’estremo opposto, troviamo chi sostiene l’utilità assoluta dell’arte e del pensiero. Bisogna investire sul lavoro di artisti e intellettuali, perché su molti versanti – non ultimo quello economico – esso contribuisce allo sviluppo, alla sostenibilità e alla conservazione della società. In mezzo a questi due estremi, troviamo numerose riflessioni più temperate, che sarebbe tanto superfluo quanto impossibile elencare per intero.
La pandemia da Covid-19 ha fatto tornare di nuovo la questione dell’utilità allo scoperto, complice anche il fatto che ai luoghi deputati alla creazione di arte e pensiero (teatri, scuole, ecc.) sono imposte tutt’ora molte restrizioni allo svolgimento di attività dal vivo. Pochi sono stati tuttavia gli interventi che hanno affrontato di netto il problema e hanno provato a costruire degli argomenti. Tra i più recenti, va menzionata una breve apparizione nel programma Piazzapulita su La7 dello scrittore Stefano Massini del 9 aprile 2020 – giorno in cui la prospettiva di riaprire teatri, cinema e simili era ancora lontana. Per difendere l’utilità dei professionisti dello spettacolo, egli ricorre a tre argomenti. Massini sostiene che gli artisti: 1) danno lavoro a molte categorie professionali, come tecnici e operatori, che certo inutili non sono; 2) hanno elaborato opere artistiche (film, libri, ecc.) che hanno aiutato a sostenere il lungo periodo di lockdown casalingo; 3) rappresentano l’identità nazionale italiana, perché ogni italiano ha arte e cultura inscritte nel suo DNA. A queste argomentazioni, Massini ne aggiunge poi una quarta. Se Aldous Huxley ha ragione a dire che «Ogni essere umano ha una sua letteratura e sono i suoi ricordi», e se è vero che le esperienze che noi ricordiamo con maggiore intensità sono proprio quelle estetiche, allora le arti performative non sono inutili. Esse permettono, infatti, di esperire e conservare nella memoria qualcosa di molto potente, che soddisfa una nostra “sete” di bellezza che ciascuno ha diritto di coltivare.
Le argomentazioni di Massini sono condivisibili per il loro buon senso. La quarta è anche in sé molto promettente sotto il profilo psicologico ed etico, perché non si limita a indicare a cosa servono le opere artistico-intellettuali per la sopravvivenza materiale e personale, ma dà una possibile motivazione della nostra spinta innata a coltivare l’arte e il pensiero. Le argomentazioni costituiscono però solo un punto di partenza per affrontare la questione dell’utilità, più che la sua risposta definitiva. Sono infatti molti gli aspetti che restano qui all’oscuro, a cominciare da che cosa sia quella “bellezza” che l’Italia incarnerebbe nel suo DNA e che ogni essere umano cerca, come l’acqua un assetato. In assenza di questo approfondimento, il rischio è che la battaglia in difesa dell’artista e dell’intellettuale diventi astratta, di parte, o in certi casi persino una forma di sottile vittimismo. Se l’arte e il pensiero vengono trascurati, è perché sono gli altri ad essere in difetto, a non sapere guardare al bello che queste due attività portano con sé.
Credo inoltre che, alla base di questo dibattito ancora in corso, si tende a dar per scontato due assunti. Da un lato, c’è la tendenza a equiparare l’”utilità” con il “profitto”, o a costruire un artificiale contrasto tra la dimensione utilitaristica e quella estetica. Dall’altro lato, quando ci si chiede se l’arte e il pensiero siano utili o inutili, spesso ci si dimentica di precisare in rapporto a cosa si misura la loro “utilità” o “inutilità”. La mia ipotesi di lavoro è che un’analisi concettuale di questo tipo possa aiutare ad aprire un dibattito più lucido e costruttivo, evitando i facili estremismi menzionati all’inizio e a elaborare quello che provo a chiamare “utilitarismo estetico”.
La dottrina utilitaria gode perlopiù di cattiva fama. Il suo proposito centrale di “massimizzare” il piacere o la felicità e di “minimizzare” il dolore o il malessere di una comunità di appartenenza è criticata per il suo impianto iper-razionalistico / matematizzante. Esso non tiene da conto di alcuni elementi importanti, come le emozioni, le istanze morali non motivabili a livello edonistico (per esempio, il proposito di rendere felici le generazioni future o altre nazioni), il conflitto di interessi e i desideri degli individui, mentre punta solo a intervenire a livello strutturale sul piano economico, legislativo, politico di una società. Si può poi aggiungere che l’utilitarismo classico non tiene da conto del bisogno estetico dell’essere umano, o quanto meno non analizza il contributo edonistico delle arti e del pensiero con la dovuta sistematicità. Basta guardare ai classici del pensiero utilitario, come l’Introduzione ai principi della morale e della legislazione di Bentham o l’Utilitarismo di Mill, per rendersi conto dell’assenza di un esame anche parziale di questo tema. Queste giuste osservazioni critiche dimostrano però solo che l’utilitarismo così come è stato delineato finora soffre di alcuni limiti, che deve ripensarsi alla radice per diventare più coerente e inclusivo di questi elementi spesso trascurati. Sul piano estetico, la sfida è provare a dimostrare se e in che modo l’attività artistico-intellettuale possa contribuire alla felicità tanto universale quanto individuale, di misurarsi insomma con il suo portato utilitaristico almeno potenziale. Solo dopo aver provato che il suo contributo è nullo o trascurabile, o invece grande e decisivo, si potrà decretare senza più confusione la sua inutilità o utilità e regolarsi nella pratica di conseguenza.
Se si pensa in questi termini, inizia a venire meno l’opposizione artificiale tra l’arte o il pensiero e il profitto, almeno in linea di principio. Qualora i primi due si rivelassero capaci di contribuire alla massimizzazione della felicità e del piacere, essi non saranno più o meno utili dell’economia e delle industrie. La società a livello sistemico ricaverebbe benefici differenti da agenti con diverse competenze e capacità. Gli artisti e gli intellettuali soddisferebbero certi bisogni, il reparto produttivo e materiale degli altri. Ecco allora perché diventa essenziale anche affrontare il secondo dilemma. Le attività umane sono “utili” o “inutili” in rapporto a cosa?
Proviamo a chiarire con gli esempi della medicina e dell’edilizia. La prima può essere in generale definita come la capacità di conservare e restaurare la salute del corpo. La seconda è definibile come la tecnica di costruire e tener in piedi gli edifici che fungono da luoghi per specifiche attività. L’utilità di un medico e di un costruttore sarà allora misurata entro i confini della disciplina di appartenenza, nonché constatando quale sia il contributo della salute o delle costruzioni al piacere o alla felicità individuale e generale. Poiché stare in salute contribuisce di più al nostro benessere che esser malati e così l’avere dei luoghi deputati a svolgere al meglio date attività, piuttosto che il non averli, medici e costruttori si rivelano utili in un mondo dove è facile ammalarsi e in cui occorre proteggersi con gli edifici da elementi di disturbo (pioggia, freddo, ecc.). Tuttavia, si sta pur parlando di un’utilità relativa e mai assoluta. Se il mondo cambiasse fino al punto da non creare più elementi patogeni e di disturbo, medicina ed edilizia diventerebbero di colpo superflue. E ancora, l’attività del medico risulterà inutile per costruire edifici e l’edilizia sarà inutile per la salute, o comunque avrebbero un’utilità solo accidentale. L’edilizia potrà certo aiutare a tutelare la salute, creando edifici che espongono meno alla malattia, mentre il medico potrà con la sua conoscenza della fisiologia umana spiegare perché certi luoghi rendono più resistenti i corpi delle persone. Ciò non toglie che parliamo comunque di effetti secondari e derivati. Un utile costruttore non è ritenuto tale perché genera salute, così come un bravo medico non sarà considerato tale perché sa suggerire quali edifici sia più opportuno costruire.
Utilità e inutilità sono così concetti polimorfi, perché legati alle contingenze e soprattutto misurabili entro i confini di un sapere specialistico. Tenendo in mente questa premessa, possiamo applicare lo stesso discorso all’arte e al pensiero, facendo stavolta l’esempio del teatro. Quest’ultimo potrebbe a sua volta avere un suo oggetto specifico e soddisfare a un dato bisogno degli esseri umani che vivono in questo mondo, rivelandosi così utile sotto tale rispetto. Questa constatazione pur ipotetica è sufficiente a ridimensionare la tesi dell’inutilità dell’arte, o le critiche dei detrattori degli artisti. Quando decretano che il teatro è inutile, lo fanno perché hanno in mente l’oggetto e i metodi di un’altra disciplina: per esempio, la ricchezza cui punta l’economia, o la produzione di materiale e fonti di energia a cui mirano le industrie. In questo senso, il loro errore sarebbe analogo a quello di chi taccia il medico di essere inutile perché non sa costruire edifici, o il costruttore di essere inutile perché non sa preservare e restaurare la salute. Essi non riconoscono che il teatro potrebbe mirare a un altro oggetto o bisogno della società, nei confronti del quale invece gli economisti e gli industriali – utili sotto altri rispetti – si rivelano qui superflui.
Detto questo, troviamo però difficoltà maggiori a misurare l’utilità del teatro. Anzitutto, quale è il suo oggetto? Stavolta è arduo dare una risposta chiara e concisa come “la salute” o “la costruzione di edifici”, tanto che spesso le risposte che vengono date sono astratte e generiche: lo spirito critico, l’espressione di sé, la conoscenza di che cosa significhi esseri umani, la catarsi, il cambiamento, o la bellezza menzionata (tra i tanti) da Massini. Questi sono oggetti che, volendo, qualunque altra disciplina può ottenere tra i suoi effetti secondari. Un medico non può trovare espressione di sé nella cura dei malati? Lo spirito critico non è forse insegnato anche da storici e matematici? Conoscenza e cambiamento non passano praticamente in qualunque disciplina che si perfeziona col tempo? La catarsi delle proprie passioni negative o eccessive non è anche il fine di uno psicologo clinico? Persino la bellezza non sembra essere così davvero specifica del teatro, se è vero che essa può passare anche per quegli ambiti apparentemente aridi e solo materiali dell’economia. Si pensi in merito alla ricerca della ricchezza di un personaggio come Uncle Scrooge, che per citare la formula di Huxley ricordata da Massini trova in ogni soldo guadagnato e in ogni affare concluso dei ricordi che scrivono la «sua letteratura». Tale è almeno l’interpretazione del fumettista Don Rosa, che nel finale del romanzo a fumetti The Richest Duck in the World del 1994 mostra che gli affari del papero più ricco del mondo sono appunto per lui un’avventura spirituale, un modo per godere intensamente della bellezza della vita.
Ma anche se il fine del teatro fosse una delle cose appena ricordate, o qualcosa di più specifico, resterebbe ancora da capire se riesce ad assolvere una sua funzione nel mondo. Non basta insomma ad esempio sostenere che il proprium di quest’arte sia la bellezza, il sapere, la catarsi o il cambiamento. Occorre anche capire se queste cose siano più utili della loro assenza per massimizzare la felicità o il piacere della comunità e come è opportuno coltivarle. Per tornare un’ultima volta al quarto argomento di Massini, se è vero che esiste un bisogno umano di bellezza e che le arti o il pensiero rispondono precisamente a questo scopo, sarà necessario studiare più nel dettaglio se questo bisogno è autentico e, in tal caso, come impostare la società in modo che esso venga soddisfatto in più persone possibili. Ne deriverà anche una riflessione sul sistema politico e legale, che si scoprirà essere involuto o irrazionale, qualora si scoprisse che il bello è un valore civile fondamentale. L’estetica diventa così un modo per discutere di politica con un diverso linguaggio, o con un altro metodo.
Il lettore potrebbe forse trovare eccessivamente aporetica la conclusione di questo ragionamento. Si è in fondo sostenuto che detrattori e sostenitori dell’arte o del pensiero non hanno ben chiaro quale sia l’oggetto o il bisogno che per esempio il teatro dovrebbe soddisfare, senza la cui conoscenza non è affatto possibile valutarne l’utilità o inutilità. Al contempo, però, non si è riusciti a dare anche solo un abbozzo di dottrina positiva e costruttiva. Lo scopo di questo contributo era tuttavia quello di fornire delle coordinate concettuali per affrontare la questione con meno pregiudizi e presupposti gratuiti, in altri termini per invitare a ricercare in comune se sia possibile elaborare un “utilitarismo estetico”, o una teoria generale dell’utilità degli artisti e degli intellettuali. Un tema di questo tipo richiede, dopo tutto, che si parli di molte cose insieme: A) di poetica, per capire quale sia l’oggetto dell’arte; B) di etica e politica, per appurare quale pratica di vita conduca meglio alla felicità (e se questa sia davvero un fine desiderabile); C) ma soprattutto di antropologia, per capire quali siano i bisogni autentici di noi esseri umani e i mezzi per soddisfarli su scala globale, o almeno quanto più ampia possibile. Un simile proposito è ben al di sopra degli sforzi di un singolo ricercatore, che al massimo può suggerire perché c’è il forte bisogno di indagare meglio un problema enorme, scivoloso e complesso.