Quante rimozioni nei nostri gesti quotidiani: Saigon di Caroline Nguyen al Romaeuropa Festival di Katia Ippaso

Lucine al neon, fiori gialli di plastica, una madonnina fosforescente, tavoli e sedie di alluminio. A sinistra, una grande cucina a vista. A destra, un ambiente neutro che può trasformarsi rapidamente in un palcoscenico su cui esibire ciò che, a parole, non si può dire. La scenografia di Saigon, l’ipnotico spettacolo diretto da Caroline Guiela Nguyen, per la prima volta in Italia grazie alle scelte ponderate e creative di Romaeuropa festival, colpisce non solo per la nettezza e la cura di ogni dettaglio, ma perché dichiara subito qualcosa sulla natura dell’opera, che si muove sul doppio registro “familiare/perturbante”.

La 37enne Caroline Guiela Nguyen, di padre pied-noir d’origine algerina e di madre vietnamita, ha voluto ambientare il suo spettacolo epico, e di forti toni melodrammatici, in un ristorante del XII arrondissement di Parigi. Dentro gli spazi fosforescenti e lunari di Saigon (un nome volutamente generico), si svolgono gli eventi del 1996, l’anno in cui i vietnamiti “esiliati” ebbero finalmente la possibilità di tornare in patria. Per raccontare i fatti dolorosi, le partenze, le illusioni, gli addii, di quel lontano 1956, Nguyen decide di non cambiare scenografia, privilegiando il piccolo, naturale palcoscenico sulla destra come teatro degli anni bui. Muove allo stesso modo fluido, musicale, anche i corpi degli attori, alcuni dei quali fanno stabilmente parte della sua compagnia Les Hommes Approximatifs (fondata nel 2009), mentre altri, vietnamiti o francesi-vietnamiti, sono stati scritturati per questo specifico spettacolo, che apre una finestra importante sulla storia post-coloniale in Francia. Ma quello che più affascina di Saigon è la capacità della regia di orchestrare una trama complessa fatta di separazioni, rifiuti, abbandoni e ravvicinamenti, in modo da creare un grande affresco plurilinguistico (si parla francese e vietnamita, con sottotitoli in italiano) che mischia informazioni storiche e canzoni pop, ricerca delle origini e desiderio di futuro.

Attorno alla dinamica servo-padrone si snodano le vicende drammatiche raccontate da Caroline Nguyen con un realismo che sembra sfiorare il linguaggio cinematografico: «La mia generazione non può non fare riferimento al cinema» aveva dichiarato la regista francese durante l’incontro che ha preceduto lo spettacolo. «Il cinema entra tutte le volte che si fa riferimento al reale e alla percezione che ne abbiamo, vivendo e conoscendo il mondo con i nostri occhi». Quasi tutti i personaggi si trovano, a un certo punto della loro storia, a soffrire visibilmente per un amore, un figlio o un padre perduto. Piangere, ridere, innamorarsi, cenare insieme, cantare, perdersi, ritrovarsi, scrivere lettere, sono in Saigon comportamenti naturali, gesti di un’epica concreta che si costruisce attraverso il ritmo quotidiano del vivere, e del morire. E per questo che, nonostante l’apparente distanza delle lingue e del tema, ci troviamo seriamente convocati come spettatori, attori inconsapevoli di una scena sottile, privata.

Lo spettacolo ha la capacità di far emergere tutto il rimosso, il perturbante di un teatro che familiare non è più. E pensiamo a tutte le volte che siamo entrati in un ristorante vietnamita, cinese, giapponese, abbiamo chiesto il nostro piatto preferito continuando a guardare solo i nostri amici, e neanche uno sguardo, una parola, una domanda a quella donna piegata in cucina, a quel ragazzo che arriva con il suo enigmatico sorriso e la sua incerta (o perfetta) lingua a servirci. Perché l’incontro con l’altro, la grande, fin troppo dibattuta questione dell’accoglienza e dell’espulsione, passa anche da questo, dalla capacità di un gesto non indifferente, da un’apertura della mente, da una piccola infrazione a quella norma folle che ci vuole ben assestati sulla difesa della nostra lingua madre (che nel nostro caso parliamo solo noi) e delle nostre miserevoli abitudini.

Saigon

regia Caroline Gueila Nguyen
scenografia Alice Duchange
costumi Benjamin Moreau
luci Jérémie Papin
drammaturgia Jérémie Scheider, Manon Worms
con Caroline Arrouas, Dan Artus, Adeline Guillot, Thi Truc Ly Huynth, Hoàng Son Lè, Phù Hau Nguyen, My Chau Nguyen Thi, Pierric Plathier, Thi Thanh Thu To, Anh Tran Nghia, Hiep Tran Ngjia
foto di scena Jean Louis Fernandez

Romaeuropa Festival, Auditorium Parco della Musica, Roma, 29 e 30 settembre 2018.