«Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta a essere coraggiosi». Lo sosteneva Aldo Moro e in qualche modo questa frase riecheggia nella straordinaria esperienza intitolata Con il vostro irridente silenzio che Fabrizio Gifuni porta in scena al Teatro Vascello di Roma dal 29 settembre al 4 ottobre. A far ripartire con coraggio la stagione del teatro romano un lavoro che riannoda i fili del passato dando voce, in tutta la loro forza, alle parole che Aldo Moro scrisse durante la sua prigionia: 55 giorni in cui ricorda, risponde, confessa, accusa, si congeda.
Partiamo dal titolo Con il vostro irridente silenzio: cosa significa e come mai lo hai scelto?
È un passaggio molto intenso di una lettera che Aldo Moro indirizza alla Democrazia Cristiana nella quale dice: «Con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia persona e la mia famiglia». L’ho scelto non soltanto perché è una frase bellissima ma anche perché in quei 55 giorni di prigionia lui maneggia una lingua straordinaria, cristallina, alta, comprensibile a tutti, anche ai tanti ragazzi di 15-16 anni che sono venuti al Teatro Vascello lo scorso febbraio. Talmente comprensibile che risulta difficile pensare che non lo fosse per i brigatisti. I suoi carcerieri infatti hanno sempre sostenuto di non comprendere quella lingua per giustificare il fatto di non aver divulgato questo materiale così importante. Una lingua che ascoltata oggi in teatro fa piazza pulita anche di queste risposte un po’ goffe che vennero date all’epoca.
Qual era il silenzio che Moro denunciava e che in qualche modo sembra perdurare ancora oggi?
Queste carte hanno subìto una doppia maledizione. La prima è stata quella di essere mistificate, derise, depotenziate durante quei 55 giorni di prigionia e negli anni successivi perché la grancassa mediatica e la gran parte dell’opinione pubblica fu portata a credere che quelle lettere e quel memoriale non fossero di Moro ma che qualcuno le avesse scritte al posto suo, che addirittura Moro fosse drogato o che fosse vittima della Sindrome di Stoccolma e quindi si fece di tutto per screditarle. Il grande paradosso che poi porta a una specie di doppia maledizione è che quando quelle carte furono di fatto desecretate e pubblicate, dopo gli anni Novanta sono cadute in un secondo cono d’ombra, cioè non le legge più nessuno. Questa volta non perché qualcuno le stia manomettendo o nascondendo volontariamente ma perché sembra che non interessino più e quindi “questo irridente silenzio” contro cui Moro urlava dall’interno della sua prigione in quei giorni sembra perdurare fino ad oggi.
Come nasce allora il desiderio di dar voce a questo silenzio?
Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro di Torino, due anni fa mi chiese di inaugurare la kermesse con un lavoro originale creato per l’occasione, utilizzando dei materiali non destinati alla scena ma che potevano diventare un testo teatrale, facendo un’operazione tra teatro e letteratura così come avevo già fatto con Pasolini o con Gadda. Ho pensato che non mi interessava tanto aggiungere un altro lavoro alle milioni di cose che erano già state dette e scritte su Moro ma che sarebbe stato interessante per me, ma soprattutto per il pubblico, concentrarsi solo sulle parole scritte da Moro. E così è stato.
E sono parole che, dicevamo, sono state scritte in una lingua alta che però i politici oggi non usano più: quanto è importante secondo te oggi riappropriarsi della bellezza della nostra lingua?
Per me la forma è sostanza e coincide con il contenuto. La vulgata di questi anni purtroppo è quella di semplificare il linguaggio per renderlo più vicino al popolo, più comprensibile, meno complesso come se usare una lingua complessa e ricca fosse sinonimo di menzogna, per non far capire ciò che accade. L’italiano è una lingua meravigliosamente complessa, abitata da mille lingue che sono i dialetti, di una ricchezza che spaventa. La mia grande passione giovanile, su cui poi ho continuato a lavorare quando ho iniziato a fare questo mestiere, è stata Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, un libro che spaventa molti lettori che definiscono la sua una lingua complicata. Gadda non si divertiva a parlare difficile, usava semplicemente la lingua italiana nella sua interezza. Il problema va capovolto: come mai usiamo nella nostra vita e nel corso delle nostre giornate un numero così povero e miserabile di vocaboli e di verbi? Perché l’abbiamo impoverita così tanto? Da un punto di vista della politica, perché quella di Moro è anche una lingua politica oltre che privata, è un portato di quest’epoca, di questa necessità di semplificare a tutti i costi. E alla fine di questo processo di semplificazione non rimane più nulla se non suoni gutturali impresentabili nel malinteso desiderio di piacere al popolo, come se il popolo si meritasse una lingua brutta, volgare, aggressiva, possibilmente condita da insulti, aggressioni personali, e senza pensare che invece la parola è contenuto e quindi il lavoro fatto su questo testo e queste carte ha anche questa valenza.
La figura di Aldo Moro qui non viene santificata ma si assiste a un ritratto sincero e schietto di un politico consapevole dei suoi errori. Come sei riuscito a raggiungere questo difficile equilibrio?
Semplicemente e ancora una volta fidandomi delle parole e del testo, da uomo di teatro. Una volta chiuso il difficile lavoro di drammaturgia e ricucendo assieme le lettere private, quelle pubbliche e il cosiddetto Memoriale, sera per sera lascio che quelle parole mi attraversino e arrivino a destinazione. Non c’è la costruzione di un ritratto: sono le parole che naturalmente vanno a comporre un’immagine che è molto diversa da quella che si è cristallizzata nel nostro immaginario collettivo che vede Aldo Moro come una vittima scarificale. Moro era un uomo profondamente buono, ma non esistono uomini buoni a 360 gradi. Non esistono uomini che fanno le cose giuste o che si sacrificano e basta: esistono i chiaroscuri, le imperfezioni, gli inciampi. E per fortuna direi! Altrimenti sarebbero esseri umani noiosissimi e soprannaturali. Se provi a far rivivere per esempio le figure dei santi o, al contrario, dei criminali e li appiattisci in quell’unica dimensione del bene o del male, racconterai sempre una menzogna, racconterai sempre solo una parte della verità. Se sei disposto a farlo, questo lavoro ti permette di tirare fuori la complessità che è una complessità che, però, non sempre ci tranquillizza.
E infatti tutte le parole di Aldo Moro sono insieme struggenti e violentissime, producono un effetto di commozione ma anche urticante.
Sì, perché sono le parole di un uomo di Stato che improvvisamente si trova chiuso in una prigione, abbandonato, e gioca le sue carte, gioca la sua partita. Che manda messaggi, che chiede di essere liberato non soltanto per un atto di giustizia ma anche perché, come dice nella prima lettera a Cossiga, «potrei essere costretto a parlare e questo sarebbe molto spiacevole per molti di voi». Un’altra cosa che mi interessava molto indagare era: che cosa significa custodire un segreto di Stato? Che cos’è un segreto di Stato? Che cos’è la ragion di Stato? Anche questa è una materia con cui possiamo confrontarci in maniera semplicistica cioè a dire “dobbiamo sapere tutto e nessuno ci può nascondere nulla”. È chiaro che è molto più difficile accettare che ci possano essere degli interessi superiori, che ci possano essere dei patti che noi non conosciamo, magari messi in campo non per ingannarci ma per proteggerci da qualcos’altro. Però il limite qual è? Solo chi custodisce un segreto di Stato sa se lo sta facendo per motivi oscuri oppure davvero in nome dello Stato e per servirlo.
Questo tuo lavoro nella scorsa stagione, come anticipavi, ha visto una grandissima partecipazione di ragazzi: oggi cosa ti aspetti da una sala che sarà, per ovvie ragioni dovute ai regolamenti anti-Covid, dimezzata?
È necessario ricominciare. Il Teatro Vascello a Roma è uno dei pochissimi teatri che riapre già da fine settembre e io convintamente ho scelto di sostenerlo proprio perché con un atto di coraggio ha deciso di ripartire da dove ci eravamo interrotti. Sarà un’esperienza forte ed emozionante per tutti noi anche se saremo penalizzati da un pubblico ridotto ed è chiaro che ripensare a quella sala piena e alle repliche aggiunte e confrontarla con quella che sarà oggi è una cosa che dispiace enormemente. Intanto però bisogna ripartire e poi questo spettacolo, ma i miei spettacoli in generale, vivono della presenza del pubblico perché il pubblico fa lo spettacolo insieme a me molto più di quanto non sia disposto a credere. Molti spettatori pensano di assistere a una rappresentazione ma non sanno che i loro corpi, la loro temperatura produce un campo magnetico che fa lo spettacolo. Quindi cambia sera per sera non perché l’attore in qualche modo dice e riferisce il testo in maniera diversa ma perché cambiano gli spettatori e io mi lascio attraversare da quella corrente. In questo caso poi l’esperimento sarà doppio perché bisognerà capire con un pubblico distanziato e forse protetto dalle mascherine quanto si riuscirà a ricreare questo campo magnetico. Io ho fiducia che questo possa accadere.
Con il vostro irridente silenzio è infatti un’esperienza, non uno spettacolo.
Esatto, è un oggetto misterioso, come dico nel prologo, è una specie di meteorite che metto al centro per cercare di capire sera per sera se questa cosa emana ancora delle radiazioni, se ha a che fare con noi o se è una cosa perduta nel tempo.
Facendo questa esperienza viene in mente allora anche un’altra parola, forse abusata, ma che racchiude bene il senso di questo lavoro: memoria.
La memoria in sé è una di quelle parole a doppio taglio. Primo Levi ne I sommersi e i salvati ha scritto parole definitive su questo ragionando a lungo su quale fosse il valore della memoria storica, nel suo caso di una memoria storica così lancinante, così tragica, come il raccontare l’esperienza dei campi di concentramento. Lo stesso Levi, che era un uomo di una profondità, di un rigore e intelligenza assolute, si domandava: ma che uso si fa di questa memoria e quanto è autentica? Io stesso che sto raccontando e che sono testimone, quanto posso fidarmi della mia memoria? Mette in campo quindi tutta una serie di domande che sono le domande che quotidianamente ci dovremmo fare. La memoria intanto secondo me deve essere una materia viva non solo un ricordo e ci dovrebbe accompagnare ogni giorno per modificare in qualche modo i nostri comportamenti nel presente, non solo come monito. E poi c’è la memoria collettiva per capire cosa eravamo, cosa siamo diventati o cosa in fondo siamo sempre stati. Cioè: esistono dei caratteri endemici del nostro Paese che ci appartengono così profondamente da essere immodificabili e con cui dovremo fare sempre i conti? Probabilmente sì. E invece in che misura eravamo qualcosa un tempo e adesso ne siamo diventati un’altra? Lavorare su queste parole, farle rivivere in teatro attraverso i corpi significa anche fare questo tipo di lavoro sulla memoria. Ricreare cioè una sorta di mappa cromosomica per cui cerchiamo di capire come vivere questo presente. Per questo credo che quello che stiamo vivendo oggi, da un punto di vista storico, sociale, culturale, sia ancora più difficile da comprendere se non si ha la pazienza di riannodare alcuni fili della tela che vengono dal passato. Probabilmente tante cose resteranno incomprensibili e continueremo a non saperci dare delle risposte ma certo è che se non cerchiamo di capire neanche quali sono stati i passaggi precedenti, tutto diventa un orribile, tragico scherzo in cui siamo precipitati e da cui non ci potremo mai più riprendere. Allora il teatro da questo punto di vista non dà delle risposte ma ci abitua a porre delle domande e questo, forse, rende un pochino più accettabile il presente.