L’atto di recitare un mito implica due attività simultanee. Da un lato, l’attore o l’attrice seleziona, tra le numerose e spesso contraddittorie varianti di un episodio mitico, quella che pensa rispecchi meglio la sua realtà storica e tragica, oppure inventa una nuova ipotesi e inaugura così un’altra tradizione ermeneutica. Dall’altro lato, narrare un mito ha un valore rituale. Si rievoca dalla tomba uno o più personaggi mitici e li si interroga, per cercare di cogliere le ragioni del loro operare da vivi e per apprendere che cosa le loro azioni dicono della loro anima, attraverso la quale noi vediamo forse rispecchiata anche la nostra coscienza.
Il lavoro Clitennestra. I morsi della rabbia di e con Anna Zago fa esattamente queste due cose. L’attrice attinge anzitutto alla versione più quotata di tale mito, che però a suo dire rispecchia solo una visione parziale e tendenziosa. Secondo la tradizione, infatti, Clitennestra era nativa di Sparta e andò in sposa al re Agamennone di Micene che in seguito uccise insieme all’amante Egisto per vendicare la morte della sua giovane figlia Ifigenia, sacrificata anni prima dal padre per convincere la dea Artemide a far soffiare i venti necessari per consentire ai Greci di salpare verso Troia. Questa vulgata affibbiò alla donna l’epiteto di “faccia di cagna”. Come il molosso spartano descritto da Senofonte nel Cinegetico, ella avrebbe un temperamento lascivo, sanguinario e violento verso le sue prede. Pur menzionando la causa della vendetta verso la figlia morta, dunque, la tradizione tende più a presentare Clitennestra non come una vittima, bensì come una carnefice, che usa la tragedia familiare come un pretesto per assecondare la sua natura sanguinaria e ferocemente canina.
Zago non nega la fondatezza dell’epiteto “faccia di cagna”, né che il personaggio mitico abbia fatto quello che ha fatto e abbia ricavato dalla violenza un grande piacere. L’attrice la prende anzi così sul serio da trasformare Clitennestra nel molosso spartano che insegue accanitamente e con ira le sue prede. Sulla scena, Zago è vista dagli spettatori con indosso una grande pelliccia e legata per un collare a una colonna. Quando gradualmente riesce a liberarsi, Clitennestra compie inoltre una serie di altre azioni “canine”: prende cibo e acqua da due ciotole, ringhia e abbatte con ferocia un pezzo di legno che simboleggia il corpo del marito, ucciso in vita con un colpo netto di scure alla schiena. Al contempo, però, Zago riprende questa versione accreditata e portata all’eccesso per restituire molti dettagli spesso taciuti, ma essenziali, che danno di Clitennestra un ritratto più complesso, meno ideologizzato e per nulla censorio. Racconta, ad esempio, come la tradizione si guardasse bene dal ricordare che Agamennone uccise un altro figlio (dal nome ignoto) della donna, avuto dal precedente marito Tantalo. O ancora, ricorda una serie di piccoli violenti gesti quotidiani attraverso cui Agamennone ricordava il rapporto di sudditanza che Clitennestra – poco più che un oggetto parlante – doveva sempre manifestare verso il marito. Tutti questi dettagli ci mostrano come il comportamento violento della donna non fosse frutto di una generica spinta della sua natura. Se Clitennestra divenne una “cagna” violenta, è perché Agamennone e la società intera che gli permise di commettere tante atrocità l’avevano spinta ad acquisire una disposizione al sangue.
Ci sono poi anche altri indizi che l’attrice semina con eleganza all’interno di questa storia di morte e violenza, per segnalare che la donna non può essere ridotta a una figura soltanto vendicativa. La rabbia che morde Clitennestra e la istiga alla violenza è certo la passione più appariscente. In parallelo, però, Zago recita altri volti della donna e un altro suo modo di relazionarsi con la morte. Clitennestra è anche una donna meditabonda, che coglie con piglio spesso filosofico come nei nomi che uno riceve alla nascita si nasconda il destino delle persone e riflette sulla vanità del potere o della ricchezza. È poi una madre presa da occasionali accessi di malinconia, che la spingono a camminare tra i cimiteri, a farsi cullare dalle ombre delle tombe e ad accarezzare le ossa dei figli morti, trovando nell’azione una tristezza rigenerante. Clitennestra è infine una “teologa”, o meglio una critica razionalista della religione tradizionale, che non vede negli dèi un modello di condotta, né un pretesto per giustificare le sue azioni. Particolarmente bella è, da questo punto di vista, la tesi che Zago fa pronunciare al suo personaggio verso la fine del testo, ossia che ella non avrebbe mai potuto invocare le Erinni contro suo figlio Oreste. Come poteva del resto Clitennestra invocare degli spiriti vendicatori in cui non credeva? Inoltre, come avrebbe potuto scagliare le Erinni contro il figlio, che cercò di separare dalla sua famiglia per evitare alla brama di sangue di penetrare nel suo cuore e per impedirgli di condividere lo stesso destino infausto della famiglia?
Queste considerazioni valgono insomma per spiegare il rapporto di Zago verso la tradizione e il suo tentativo di riscrittura critica. Il suo lavoro getta qualche luce sui tratti “sommersi” di Clitennestra che ne rendono il ritratto più sfaccettato. Un molosso spartano non vive del resto solo di rabbia e in cerca furiosa della sua preda, perché conosce anche la stanchezza, l’amore e la tristezza.
Che dire, invece, dell’aspetto rituale? Perché Zago rievoca lo spettro di Clitennestra dalle ombre? La risposta sta nel sollevare dubbi sulla giustizia amministrata dai vivi.
Un problema è presentato in modo netto, senza alcun fronzolo, agli spettatori radunati di fronte allo spettro che si muove tra rabbia e altre passioni contrastanti dentro la scena, forse ripreso in parte dal precedente di Marguerite Yourcenar (Clitennestra, o del crimine, in Fuochi, trad. it. di Maria Luisa Spaziani, Bompiani, Milano 2005, pp. 85-94). Se oggi un nuovo Areopago dovesse essere allestito da voi come giudici, che conoscete la storia nei suoi dettagli sia crudi che umani, troppo umani, condannereste ancora Clitennestra, o al contrario la assolvereste? Lo spettro della donna viene insomma rievocato dai morti come un enigma vivente, tutt’ora da risolvere e che non consente una facile risposta. Chi la assolve, misconosce il sangue che ha versato e che la donna non ha fatto nulla per controllare la sua rabbia, pur avendo avuto – come ammette lei stessa – più volte pensieri a rinunciare alla vendetta. Chi la condanna, ignora in maniera consapevole tutto ciò che in parte forse giustificherebbe il suo delitto, oltre a mentire a sé stesso: anche noi che siamo seduti intorno alla scena vorremmo liberare la bestia feroce tenuta in cattività dentro noi, ma non riusciamo/vogliamo per pudore o debolezza. Ci troviamo insomma di fronte a un paradosso. Clitemnestra è ineducabile per la troppa ferocia, ma non la si può condannare; è un personaggio ricco di sfumature umane, ma non la si può assolvere. La giustizia non può procedere, né recedere.
Dunque che fare? Le ultime parole pronunciate di fronte agli spettatori lanciano loro la sfida di risolvere la domanda impossibile. Un morto tornato dalle ombre mostra così la limitatezza dei nostri concetti morali, di buono e di cattivo, invitandoci a partire dall’enigma-Clitennestra per provare a fondare un’idea meno imperfetta di giustizia: una all’altezza del suo mistero.
Clitennestra. I morsi della rabbia
spettacolo del 73° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza
prima nazionale
di e con Anna Zago
regia Piergiorgio Piccoli
produzione Theama.
Visto al Teatro Comunale di Vicenza il 17 ottobre 2020.