Con la firma del Dpcm del 3 novembre 2020, tra le «Misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale», è stata applicata «allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 sull’intero territorio» la sospensione di «mostre e [d]i servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42» (Articolo 1, paragrafo 9, comma r). Questa decisione ha comportato anche la chiusura delle biblioteche, in quanto appartenenti alla categoria entro cui ricadono gli enti museali. Ciò ha comportato nuove difficoltà soprattutto per la ricerca scientifica di taglio umanistico, oltre che la preclusione all’accesso di luoghi che sono fonte di conoscenza, incontro e socializzazione.
Va subito detto che la situazione è molto meno tragica rispetto a quella che ci eravamo trovati ad affrontare nel pieno della prima ondata. I servizi di consultazione e prestito che allora erano pressoché bloccati sono oggi ancora in parte accessibili. Molte biblioteche delle regioni meno colpite dall’emergenza hanno garantito un accesso ai locali con orario ridotto pur limitandolo a studenti, docenti, ricercatori (si veda il caso della BUC, o Biblioteca Universitaria Centrale, di Trento). In alcune regioni, è stato dunque possibile consentire il proseguimento di una parte delle attività di studio almeno a chi lavora nell’ambito della ricerca di ogni ordine e grado.
Gli istituti bibliotecari che sono stati invece costretti a impedire completamente l’accesso al pubblico – incluse le categorie degli studenti/docenti/ricercatori – forniscono supporto allo studio, grazie al document delivery e alla digitalizzazione. Riviste anche vecchie o parti di libri sono fornite su richiesta a chiunque ne abbia necessità. Chi è poi strutturato in un’università o altro ente di ricerca, può inoltre ricorrere al servizio di prestito interbibliotecario, che consente di richiedere anche i volumi recenti e che non possono essere interamente digitalizzati, perché coperti da diritto d’autore. Queste e altre biblioteche consentono inoltre il servizio di prestito/restituzione a domicilio. Tale servizio è aperto a tutti gli utenti iscritti alla sede, purché residenti o domiciliati nella regione che ospita l’istituto bibliotecario.
Va infine aggiunto come la situazione critica venga attenuata da gruppi di supporto che, sempre nel pieno rispetto del diritto d’autore, permettono lo scambio di materiale di ricerca e l’accesso a informazioni bibliografiche. Tale è ad esempio la pagina Facebook La Bibliothèque Solidaire du confinement. Un suo più piccolo ma non meno importante corrispettivo italiano è il Gruppo di mutuo aiuto ricerca umanistica. Unendo a queste forme di supporto istituzionali e “dal basso” l’utilizzo di siti legali che rendono accessibile materiali di difficile reperibilità, come Google Libri (che consente di persino di scaricare gratuitamente libri a stampa di età moderna) e Internet Archive, risulta possibile accedere ancora a una discreta biblioteca personale.
Nonostante questi lodevoli sforzi, la situazione resta complicata e non certo rosea. Anzitutto, la situazione esacerba ed evidenzia criticità che precedevano l’emergenza pandemica. Chi non ha la fortuna di vivere in una regione dove la consultazione in sede è almeno un poco tutelata, né gode di un’affiliazione a un ente di ricerca, rischia un autentico fermo obbligato. Come purtroppo accade anche in altri percorsi professionali, sono le categorie di lavoratori più deboli – quali contrattisti a progetto e studiosi indipendenti – a patire maggiormente la crisi. Proprio perché si trovano in situazioni lavorative precarie o ai margini, queste persone spesso non hanno nemmeno la possibilità di acquistare molti libri o articoli su riviste, a causa dei costi proibitivi degli stessi. E dal momento che la pubblicazione delle proprie ricerche costituisce un decisivo elemento per cercare di uscire da questa situazione di instabilità e marginalizzazione, l’ineguaglianza si accentua. Chi è precario rischia di restare tale più a lungo, nei casi peggiori può persino temere l’interruzione della sua carriera.
In difficoltà sono però anche gli utenti strutturati e che godono di una maggiore stabilizzazione lavorativa. Alla chiusura delle biblioteche che costringe al rinvio o alla sospensione dell’attività di ricerca, non corrisponde sempre un rinvio o sospensione delle scadenze lavorative. Alcuni dei fondi della ricerca richiedono infatti di essere investiti entro un determinato arco temporale, o quantomeno di adempiere ad alcune tappe intermedie, pena la sospensione del finanziamento. Ma anche la concessione di un rinvio può comportare qualche problema nel percorso di un ricercatore. Un dottorando che dovesse essere costretto a posticipare di mesi il completamento della sua tesi di dottorato e la relativa discussione rischierebbe, per esempio, di non poter partecipare a bandi o altre opportunità lavorative che richiedono il titolo.
In ultimo, ma in realtà al primo posto per importanza, va articolata la considerazione che segue. Seppure si appartenesse alle categorie più fortunate, si avesse l’accesso a biblioteche con orario ridotto e con accesso su prenotazione, si potesse reperire quasi tutto il materiale col document delivery e con la digitalizzazione, molte attività di ricerca verrebbero seriamente rallentate, o compromesse nella loro interezza, perché non sostituibili dall’attività di smart working. Da un lato, infatti, le ricerche bibliografiche che in un periodo non-emergenziale si esaurirebbero in pochi giorni di lavoro a tempo pieno, ricorrendo al patrimonio librario della propria regione o avvalendosi di una trasferta presso sedi che possedessero il materiale rimasto da consultare, nella situazione attuale richiedono settimane o mesi. Anche un celere servizio di digitalizzazione o document delivery richiede una discreta attesa e non può costituire il principale mezzo di consultazione. Esso è stato del resto pensato soprattutto per reperire materiale raro, o conservato in biblioteche estere. L’esperienza del ricercatore umanistico mostra poi che, in una fase medio-avanzata di studio, si scopre spesso di aver bisogno di approfondire altre tematiche (dunque di fare nuove letture) che non erano state dapprincipio preventivate. Risultato? L’iter difficoltoso appena descritto ricomincia e dilata ulteriormente i tempi di attesa.
Dall’altro lato, esistono materiali che non possono essere digitalizzati, o che non si possono studiare senza esame ravvicinato. I manoscritti delle biblioteche storiche o degli archivi sono in difficile stato di conservazione e anche in tempi normali sono consultabili su prenotazione per un tempo limitato. I papiri richiedono, invece, indagini di tipo autoptico, come ad esempio l’esame al microscopio e i tentativi di separarne gli strati sovrapposti, per leggere così nuove parti di testo. Attività del genere sono ovviamente impossibili da eseguire su supporto digitale, che quindi diventa un mero surrogato dell’autentica ricerca dal vivo.
Proprio per affrontare o contenere queste criticità, sono state lanciate campagne e petizioni per chiedere la proroga delle scadenze delle attività lavorative che richiedono l’uso continuativo delle biblioteche, oppure, se ciò non fosse possibile, per consentire ai professionisti un accesso più ampio e prolungato, adottando i dovuti protocolli sanitari (cfr. ad esempio l’appello caricato qui). La richiesta riconosce che la crisi pandemica non va trascurata, ma attesta anche che il rispetto dei protocolli antecedenti al Dpcm del 3 novembre non ha condotto a situazioni note di contagio. Richieste del genere sarebbero allora legittime perché non ledono la sicurezza della comunità ed evitano la paralisi di larga parte del comparto lavorativo della ricerca.
Si potrebbe certo replicare che rivendicazioni del genere sono irrealistiche e non costituiscono una priorità. Se subiscono limitazioni o chiusure attività essenziali di produzione, commercio e insegnamento, a maggior ragione si potrà fare a meno di “lussi” come gli studi su testi molto antichi, sulla storia delle idee, o sulla letteratura o sulla poesia, che non hanno un impatto diretto sulla salute e sull’economia. Si è però visto come persino la ricerca umanistica sia collocata in un più ampio contesto economico-sociale: ledere l’una significherebbe colpire nel medio-lungo termine anche l’altro. Che poi ricerche del genere non siano un “lusso” è dato dal fatto che le discipline umanistiche non produrranno forse nulla nell’immediato, ma rappresentano il seme del futuro progresso sia materiale che spirituale di un paese. In questo, il ruolo della ricerca scientifica di taglio umanistico è paragonabile a quello delle scuole. Poiché il governo proclama di cercare di tenere il più possibile aperte queste ultime, considerandole un investimento umano ed economico per il futuro, a maggior ragione forse non dovrebbe trascurare anche gli studi umanistici, che costituiscono un investimento altrettanto tangibile.
Il recupero di un patrimonio storico e la promozione di idee o modalità di pensiero alternative che derivano da discipline come la filosofia o la letteratura sono alcuni generici esempi di come anche il lento/faticoso lavoro di un ricercatore di biblioteca o archivio ha un impatto concreto su una società che voglia dirsi civile. Provare a tutelare questa categoria professionale – nei limiti del protocollo sanitario e senza scatenare l’ennesima guerra di categoria – significa tentare di contribuire al benessere senza dubbio “essenziale” della comunità: aiutare un gruppo per cercare di agevolare tutti.
Questo articolo è stato migliorato a seguito delle amichevoli osservazioni di Matteo Fadini e di alcuni membri del gruppo Safe Space di Facebook (Francesca Garibotto, Giovanna Salis, Luca Sbordone, Michele Mungari, Ranieri de Maria, Rosamaria Bitetti, Stefano Adamo, Valentina Blandino, Venusia Marconi). Ringrazio tutti costoro per il supporto.