Con Teatro Volume I Donne, Dante Maffia ha voluto raccogliere per la prima volta un notevole numero di componimenti potenzialmente destinato alla scena teatrale, dove protagoniste son quasi sempre figure femminili. Già nel 2011 Maffia, scrittore di grande talento e profondità, aveva pubblicato una bella raccolta di racconti ispirati alle donne, Sette donne per fare un uomo intero. Racconti di donne e sulle donne (Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, 2011) in cui i personaggi femminili stessi si prendono la parola, in prima persona, mettendosi a nudo, presentandosi autonomamente, autoritraendosi in genere attraverso le forme del monologo interiore, ben virato verso una concretezza elocutiva ed una prospettiva relazionale che già nella pagina presume lo spettatore.
A maggior ragione anche i personaggi femminili protagonisti del nuovo libro (primo dei due volumi di testi teatrali progettati con La Mongolfiera) disposti nei ventisei “pezzi” in rigido ordine alfabetico derivante dai nomi propri che ne danno il titolo, sono per lo più monologanti, che esplodono e bruciano in un lampo, personaggio dopo personaggio, le energie che sostengono drammaturgicamente la loro ragion d’essere.
Ogni personaggio protagonista vive sprigionando energia elocutiva e teatrale, per via delle frizioni che vengono vissute nella sua interiorità, a causa di vari conflitti: con l’altro sesso, con il maschio, sia questo marito, fidanzato, compagno, amico; con l’incomprensione degli altri, o della società; con i fantasmi e le deformazioni mentali, e le follie, che albergano nel proprio universo personale, sentimentale, psichico, a volte orientato verso un grottesco sorprendente. Sono personaggi che, a volte, si avvicinano a quelli del Testori autore di monologhi, e che nel parlare rivolgendosi a degli ascoltatori, non fanno altro che svuotare sé stessi, che confessarsi nel profondo, sviscerando ogni sottile piega del loro essere, della loro essenza psichica, spirituale e della loro vibrante vitalità fisica e fisiologica.
Alcuni di essi si avvicinano a quelli delle tragedie di Pasolini, quando sono le idee, il divagare delle menti, a tracciare una danza che li fa muovere drammaturgicamente. Avviene così che la sostanziale mancanza di azione di tali personaggi costringerà, io credo, il futuro spettatore teatrale a crearsi, contemporaneamente all’atto elocutivo consumato sulla scena, un suo teatro mentale, a costruirsi una sua scena personale, spinto a ciò dal flusso elocutivo davvero inarrestabile del personaggio, dalla ricchezza fantastica che viene espressa.
La miniera d’oro che ci offre Maffia con questa raccolta di testi teatrali comprende, a mio parere, dei veri e propri gioielli, fra i 26 monologhi contrassegnati dalla “sintesi”; compreso anche un lungo monodramma, Il dono di Cristina, di sconvolgente efficacia letteraria ma anche drammaturgica: dolore coniugale, elaborazione del lutto, forza dell’Eros, visionarietà, esplosione della sessualità, fisica e mentale, che investono lo stesso lettore, il tutto in un capolavoro che, mi auguro, il teatro italiano sia in grado di valorizzare in un non lontano futuro.
Oro puro sono altri testi, che dal punto di vista del genere, cambiano struttura: mi riferisco, ad esempio, a La nube dell’ignoranza (Il romanzo di Isabella Morra), che è la ricostruzione, tramite una sorta di processo, delle vicende terrene della poetessa lucana del Cinquecento Isabella di Morra: di lei, che di fatto non appare sulla scena, si parla, si testimonia, tramite ogni persona della sua famiglia: si crea un prisma drammatico che, da ogni faccia, sprigiona luci diverse le une dalle altre, nel tentativo di illuminare davvero il mistero di una giovane poetessa afferente ai petrarchisti del periodo, ma anche giovane vittima che per amore pagò con la sua vita le colpe di cui fu accusata dal proprio ambiente di vita.
Infine, voglio ricordare, solo col titolo, altri testi davvero belli, davvero coinvolgenti, da In difesa di Dio a Il balcone. Ma non posso non sottolineare, prima di chiudere, un’altra caratteristica dello stile di scrittura di Dante Maffia, che lo avvicina, come tecnica anche mentale, al lavoro profondo del vero attore teatrale, e cioè la capacità massima di “precisione” e “controllo”, in particolare del suo idioletto, della strumentazione retorica, della prosodia, che qui gli derivano innanzi tutto dalla sua migliore e grande poesia.
Vi è testualmente un aggancio diretto tra il teatro “implicito”, o “implicato”, presente nel volume appena considerato e l’ultima straordinaria fatica poetica di Maffia, uscita a luglio del 2020, Il suicidio, lo stupro e altre notizie. La raccolta è in gran parte costituita da tre poemetti, due aventi come protagoniste ancora due giovani donne (da cui i titoli delle due composizioni), una, Genoveffa, che giunge al suicidio, e che è già presente nel Teatro Volume primo Donne e che fa da transito esplicito da un libro all’altro (pur con delle variazioni e con aggiunte che non cambiano la sostanza testuale). L’altra protagonista, anch’essa giovane, è Adelaide, vittima di uno stupro con esito tragico, inevitabilmente e irrimediabilmente violento. Il terzo poemetto L’uomo che vuole essere pari a Dio, è il tentativo di un dialogo e al contempo una sfida che il poeta, in prima persona, lancia verso e contro Dio come entità suprema indimostrabile e “inventata” dagli uomini. Il resto della raccolta è costituito da singoli componimenti raccolti in tre sezioni riferibili a fatti, eventi, personaggi desunti per lo più dalla cronaca, dalle notizie che ci invadono ormai quotidianamente, un’infodemia invasiva, rispetto a cui il poeta pone un argine resistenziale tramite una parola “forte”, semanticamente accurata, nella costante ricerca di una possibilità di tener vivo il rapporto Bellezza-Poesia-Amore.
La sfida più coraggiosa di Dante Maffia, a mio parere, è comunque quella di passare al vaglio di un dettato poetico e di forme e procedimenti stilistico-espressivi una materia di cronaca, e di cronaca nera, in particolare nei primi due poemetti succitati; nel terzo, direi che il tentativo è perfino commovente, per il flusso di immagini, considerazioni, riflessioni che si ricollegano a motivi teologici, biblici (le lamentazioni, la figura biblica del patriarca Giobbe, ma un Giobbe che modernamente ha perso la fede) esistenziali, strettamente personali ed intimi. Il verso rapisce per l’estrema sincerità che rivela, dal momento che si sprigiona una nostalgia di fede che non può essere soddisfatta, e d’altra parte, se il poeta davvero possedesse tale fede, dovrebbe lui stesso tacere credendo assieme nell’ineffabilità di Dio (e magari affidandosi a modalità discorsive e fin poetiche di tanti mistici anche contemporanei).
Ma torniamo ai primi due poemetti, il primo, Genoveffa, molto più lungo e suddiviso in dodici episodi, o momenti, il secondo, Adelaide, in sedici flashes in cui appaiono oltre alla vittima, persone parentali, poliziotti, testimoni, gente qualunque che commenta, per finire col funerale della ragazza stuprata.
In entrambi Maffia vince in maniera straordinaria, affascinante, ammaliante, anche a tratti conturbante, la sua sfida, che è contro le modalità che vanno per la maggiore nel trattare fatti gravi di cronaca, e cioè il raziocinio sociologico, psicologico, giuridico, come si può constatare in trasmissioni televisive o in commenti sui famigerati social. La parola poetica di Maffia va ben oltre tali modalità, in una dimensione legata al “pensiero del cuore”, all’intuito lirico. Ne consegue che il poeta innanzi tutto ci dà all’inizio, in una sorta di prologo, i punti essenziali della tragica vicenda di Genoveffa, affetta da disturbi mentali, affidata a una nonna in una casa milanese con giardino, sul quale la giovane si affacciava «mormorando parole che apparivano sconnesse»; Genoveffa si è suicidata «in una notte di luna piena» , divenuta «la più completa e perfetta delle parole», e per ciò fattasi incomprensibile; il poeta ricava i suoi versi «da una sorta di diario» segnato da una «scrittura frantumata» dovuta alle allucinazioni della ragazza.
Maffia così trova la chiave giustificativa, anche nei riguardi del lettore nell’offrirgli degli appoggi esplicativi, per la sua scelta espressiva che si affida alla frantumazione della sintassi, aiutata molto da un verso libero in cui i legami delle rime sono ridotti quasi al minimo, e la stessa prosodia non rispetta regole geometriche: anacoluti, inversioni, sospensioni frangono la gabbia stretta delle regole sintattiche e il lettore deve farsi invadere dal fluire visionario, profondamente immaginativo di metafore e analogie mai scontate; da mitologemi privati che conquistano chi legge; da anafore che battono e ribattono su singole annotazioni, al limite del senso, ai confini della semantica corrente.
Già in una sua memorabile raccolta precedente, Lo specchio della mente (Crocetti Editore, Milano, 1999) Maffia aveva affrontato il tema della “pazzia”, come dolorosa insopportabilità del proprio mondo mentale da parte dei ricoverati di tre manicomi: qui, in Genoveffa, il poeta spacca le consuetudini analitiche di fronte all’estremo approdo mortale di una giovane sofferente e chiusa in un suo mondo: parola, gesto sotteso, e azione implicita, che la scena teatrale potrebbe sostanziare, divengono una scelta etica, esemplarmente condotta tramite una versificazione che tocca l’emotività ma senza ad essa impigliarsi: «sempre alla finestra a guardare \ le linee dell’afasia, il cuore \ degli illibati lumi delle ginestre,\ a tessere la possibile allegria \ dell’unico sogno \ perduto nel bianco dei peschi.». Versi di grande efficacia espressiva, che ti strappano il cuore, ma che, nello sviluppo del poemetto, riportano anche ad una dimensione di “perdita”, di “privazione”, di “cessazione”, di “separazione”, e questo viene raggiunto tramite un’altra grand’invenzione stilistica, e cioè con il conio di formazioni lessicali usando il prefisso s- (di derivazione latina, ex-), e anche con lessemi in uso nella lingua standard: qualche esempio al minimo: con visionarietà accesa: «e che il diavolo vomiti \ per far sentire la sgorgolante atmosfera \ della resurrezione.»; «e bilance furbe e anfratti di cupi ingordi lumi \ che la musica è sfatta guardinga e solitaria»; e nel momento culminante del “salto”: «mentre l’uggia dei dati supera \ la disinfestazione e sdirupa la minzione \ della quiete»; e l’incredibile annotazione ambientale che si fa compagna d’una pena irrimediabile: «La foglia del melo che copula con le tenebre: \ l’alba non sbuia d’un millimetro.».
Sul molto più breve Adelaide, storia di uno stupro perpetrato a Roma su una sedicenne e che finisce tragicamente in un “femminicidio”, m’immagino come un’attrice possa farlo divenire un gran momento di teatro, memore di quanto, tanti tanti anni fa (1973-1975), fece Franca Rame col suo monologo (Lo stupro) nato dall’esperienza di una subìta violenza.
Qui la sintassi si fa piana, il poeta riporta voci, spesso il discorso scende a livello dell’animalità, delle bestie più schifose o furiose; Bellezza e Amore, per il poeta, sono sconfitti, e rischia la sconfitta anche la Poesia, tutto va in frantumi, il dolore si fa tutt’uno con la morte; perfino il mare, ispiratore immenso del poeta, «vuole ribellarsi \ ha gridato non c’erano ascoltatori \ non c’erano marinai \ o pescatori di frodo, \ ci sono momenti in cui tacciono \ le stelle e l’immondizia, \ la sua voce.».
Dante Maffia, Teatro Volume I Donne, La Mongolfiera, Doria di Cassano allo Ionio, 2019, pp. 435, euro 29,00.
Dante Maffia, Il suicidio, lo stupro e altre notizie, Whitefly Press, Torino, 2020, pp. 211, euro 18,00.