A teatro niente, non ci si va. Combattiamo per le riaperture, ma immaginiamo anche il dopo – e il dopo è cambiare il teatro, restituirgli il suo peso fondamentale, fare di un accessorio un diritto, di cui sarebbe impensabile accettare la sospensione di un anno. «Tendere l’arco»: rubo la formula di Romeo Castellucci.
Perciò ecco l’abbozzo di un breve viaggio monografico per avvicinarsi alla regia d’opera attraverso il patrimonio open di Raiplay, che conserva per un certo periodo alcuni degli spettacoli andati in onda su Rai5 («C’è già una Netflix della cultura», diceva qualcuno).
Se esiste in Italia un regista d’opera che non ha bisogno di esser cavato dall’ombra, questo è Davide Livermore. Sue opere sono rappresentate ovunque nel mondo, è direttore dal 2015 al 2017 del Palau de les Arts Reina Sofia e da un anno del Teatro Nazionale di Genova. L’apertura della stagione scaligera è suo appannaggio, dal magnifico Attila di Verdi del 2018 al discutibile pastiche nazionalpopolare dato in sostituzione di un’opera nel 2020. E così il quinto canale Rai, dedicato alla cultura, gli ha dedicato una settimana di messe in onda, dal 25 al 29 gennaio, concentrandosi sulle regie operistiche.
Organizzo il mio micro viaggio con quelle regie, di cui fornisco anche il minutaggio degli esempi (ma devo escludere il più possibile Don Pasquale e Attila, che non sono online), e intorno a cinque punti.
- La pesantezza e la leggerezza
- I luoghi comuni
- La tecnologia visuale nell’opera
- La bellezza
- L’attualità dell’attualizzazione
- La pesantezza e la leggerezza. Cosa sono? Come gestirle? La prima è una scena caricata da volumi o significanti (da scenografia, da azioni, da personaggi, da piani verticali o orizzontali, da significati), la seconda è lasciata sgombra, aerea. Un esempio di pesantezza è nel Barbiere di Siviglia andato in scena al Costanzi nel 2016 per festeggiare il duecentesimo della prima romana. Durante il duetto del Primo Atto tra Figaro e Rosina (“Dunque io son”, 1h.02′.47″), la scenografia a due livelli si anima di balli, azioni e controscene, mentre i protagonisti sono accompagnati da figuranti/doppi, da un orso impagliato che prende vita e balla, da videoproiezioni. Il tutto attorno ai costumi dei cantanti, che paiono disegnati a china, in un liberty sottile di segno ma denso da asfissiare. Così, prevedibilmente, nel concertato finale, in cui, evoluti i costumi dei protagonisti fino a improbabili canottiere, pantaloni a zampa, mocassini bianchi, vestaglie di pile, non sarebbe quasi possibile trovare in angolo di palco libero, se non statico: non manca una tv, un divano, cartelli vari. Né un elemento che sia privo di carica semantica. Di contro, in Demetrio e Polibio, rappresentata da Livermore nel 2010 a Pesaro, ogni cosa sembra composta dall’aerea materia di una fiammella a spirito, come quelle che i personaggi tengono in mano, fiamma fragile e volatile, ora ambrata, ora verde. In questo dolce, esile, giovanile Rossini, anche il coro, quando appare per la prima volta (“Nobil gentil donzella”, 26′.53”), è sostituito da due tiri, a cui stanno appese decine di abiti svuotati dei corpi, appesi a tante grucce come fantasmi in mostra.
- I luoghi comuni. Quando servono, Livermore sa usarli. Un esempio è strutturale, vecchio come il palcoscenico: il teatro nel teatro. Tanto Demetrio e Polibio quanto Ciro in Babilonia (Pesaro, 2012) sono costruiti interamente sopra questo topos. Nella prima i personaggi sono immaginati come spiriti che vivono sul palcoscenico quando il sipario sugli spettacoli “veri” viene chiuso: prendono vita nella notte e, destreggiandosi fra cantinelle, scrosce, relle e bauli, ripetono inesausti il loro dramma, in una sorta di pirandellismo soave. D’altra parte Ciro altri non è che un attore di peplum anni Venti, e il coro che commenta l’azione è un coevo pubblico di cinematografo. Nella prima opera, Livermore apre il sipario davanti a un altro sipario a fondo scena, capovolgendo virtualmente di centottanta grandi la direzione del guardare, trasportando il pubblico nel retroscena e fingendo un’altra platea oltre il fondo, suscitando così nello spettatore uno stupore grande e infantile. In Ciro in Babilonia il pubblico del cinema è posizionato sul palco, sempre in angolazioni diverse, ed è giocato dai figuranti e dal coro: si elimina così l’effetto illusorio, e lo spettatore è chiamato a guardare chi guarda, in un gioco anch’esso estremamente tradizionale ma efficace, capace oltretutto di operare verso il pubblico moderno un rimbalzo di quel distacco con cui conviene assistere a simili vicende, altamente formalizzate e stranianti.
Altro luogo comune prettamente registico è quello con cui Livermore affronta (talvolta) gli “a parte”, cioè quando vengono cantate parole che gli altri personaggi in scena non dovrebbero poter udire: l’espediente usato dal regista torinese è quello di inserire in un circolo di luce chi canta e mantenere nell’oscurità il resto della scena, che si ferma immobile, quale sospensione dello scorrere del tempo. Nonostante non sia un’opzione innovativa, essa è perfetta per un nuovo ascoltatore: lo avvicina stemperando l’arduo antinaturalismo di questa convenzione teatrale.
- La tecnologia visuale nell’opera. Cioè il video (o il videomapping) nell’opera. Non l’opera in video, che naturalmente esiste da decenni, ancella del disco. Livermore si avvale da tempo del contributo del gruppo torinese D-WOK, e anche nel 2016 il video proiettato insieme all’ouverture deI Barbiere aveva una sua funzione specifica. Da un lato introduceva il pubblico al linguaggio estetico della messinscena, una sorta di gotico-liberty da fumetto, con accenni ai cartoon-intermezzi di Terry Gilliam; dall’altra lo metteva a parte della lettura generale del testo d’origine di Beaumarchais, dai tratti antinobiliari e libertari. Il regista carica questo substrato ideologico di ripetute allusioni giacobine e lo amplifica con un allusivo turbinare di decapitazioni di dittatori, da Luigi XIV (a cui fa compagnia anche Robespierre) a Stalin, Franco e Mussolini – presentato a testa in giù. Il tutto eseguito con nettezza dalla lama di un rasoio da barbiere, appunto, dopo che i menti dei tiranni hanno subito una frettolosa insaponatura. Ecco: il sipario non si è ancora aperto, e già siamo immersi in un corposo universo di significati, sappiamo a cosa andremo incontro. Abbiamo già fatto la nostra prima risata.
Ma il video per Livermore può essere anche sostegno, anche suscitatore secondario di emotività, insieme al canto: e così nell’Attila scaligero, purtroppo assente su Raiplay, il fondale era una terribile distesa fumigante di rovine, il panorama desolato di un paese occupato e bombardato, simile alla Berlino di Rossellini.
- La bellezza. Livermore non la rifugge, ed è capace anche, talvolta, di tirarsi indietro per lasciarla splendere, quand’è sorgiva. Dell’Attila sarebbe molto utile poter usare la prima scena del Primo Atto come esempio, con la sortita di Odabella (“Liberamente or piangi … Oh! nel fuggente nuvolo”): sopra un palcoscenico ingombro di corpi di civili straziati dai nemici, lei canta di suo padre, che le appare quasi in sogno. Insieme con lui, ucciso dagli Unni, rivivono davvero sulla scena quei cadaveri, riprendono vita, si risollevano ripercorrendo col corpo gli ultimi attimi della loro esistenza terrena, come in una generale sospensione retroattiva del dolore.
Qualcosa di paragonabile, anche se il paradigma qui è architettonico, statuario, non coreografico, è in Demetrio e Polibio. Durante il coro “Andiamo taciti” e la successiva aria “All’alta impresa” (da 45′:55”), la scena lentamente si dispone in un quadro elegantemente neoclassico, un triangolo, un timpano che ha alla base Demetrio e al vertice, su un pianoforte nero, a coda, sospeso in aria, Lisinga assopita.
Su come scomparire, invece: all’inizio dell’Atto Secondo del Ciro, un duetto d’amore fra il protagonista e Amira (“Nello stringerti al mio petto”, 10′:10” – secondo video). Nulla in scena, luce lunare, le due voci di Ewa Podleś e Jessica Pratt splendono.
- Attualità dell’attualizzazione. Può l’opera parlare del presente, o è solo un esercizio di antiquaria? Una precisazione, per iniziare: il sottobosco dei critici o dei semplici brontoloni è tutt’ora occupato da una querelle che agli occhi di uno spettatore di altri teatri è quantomeno assurda, quella se sia o non sia lecita l’attualizzazione della trama di un’opera o se si debba sempre seguire il famigerato “volere dell’autore”, araba fenice che «dove sia nessun lo sa». Inutile dire che quella della ricostruzione filologica è solo una delle strade percorribili, in un arco che può giungere fino agli esperimenti estremi di Dmitrij Černjakov, che stravolge le trame andando anche contro la lettera dei testi letterari su cui la musica è poggiata, o a quelli diversamente eretici di Romeo Castellucci, il quale tratta il testo musicale come un regista tratterebbe il soggetto di una fabula classica, intervenendo talvolta sensibilmente in ogni articolazione del testo operistico, dal libretto alla sequenza dei numeri.
Livermore non cade né in un estremo né nell’altro, mantenendosi in un giusto – e popolare – mezzo:attualizza, se necessario, tempi e contesti, ma la trama rimane per lo più invariata. Un esempio è sempre quello dell’Attila, che sfrutta il luogo comune più trito delle attualizzazioni, quello che trasporta i fatti rappresentati nell’epoca dell’occupazione nazista d’Italia.
I Vespri siciliani, grand opéra scritto da Verdi per Parigi e poi riportato in infelici versi italiani, è andato in scena nell’ambito delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia al Regio di Torino, sotto la tempestosa ma lucidissima concertazione di Gianandrea Noseda. L’occasione era più che istituzionale, addirittura solenne: il presidente Napolitano sedeva nel palco d’onore, e l’inno di Mameli apriva la serata. Ciò nonostante, Livermore non ne ha fatto un’occasione di vuota celebrazione, ha anzi saputo piegare con delicatezza e decisione la vicenda della rivolta siciliana del 1282, per farne un’istantanea fresca di stampa di quel presente, il primo decennio del nuovo millennio.
C’è l’indecente familismo, c’è il formarsi di concrezioni di potere legate al quarto potere dei mezzi di comunicazione di massa, c’è di questi mezzi il lato culturalmente più devastante, quello dell’immonda tv verità, (stile La vita in diretta, che è sempre Rai…), c’è l’annullamento della personalità dei singoli di fronte alle pressanti richieste di omologazione, ben reso attraverso l’uso di inquietanti maschere color carne, lisce, senza tratti. E non manca il ricordo gravoso della storia più o meno lontana: architetture cupamente littorie ricordano gli ambienti de Il conformista di Moravia/Bertolucci, e così la Resistenza trova una sua spiccia ma efficace, urgente citazione nei costumi dei congiurati, che rispondono a qualche necessario cliché: baschetto nero per lei, trench scuro e lungo per lui. Né manca, icastico, il riferimento alle stragi mafiose: due macchine ministeriali esplose giacciono in una discarica, mezzo sepolte da sacchetti di immondizia nell’Atto Secondo. Tutto ciò non ha il semplicistico statuto di citazione, ma si fonde in una ricostruzione di storia di quel nostro presente, già mutato oggi, a dieci anni di distanza, ma allora caldissimo e urgente. Ecco la risposta a quella domanda, se può l’opera parlare del presente. I Vespri nel 2011 lo facevano; oggi ci raccontano come eravamo, e in parte ancora siamo, sbattendoci davanti agli occhi uno specchio impietoso. Lo specchio, immagine prima e definitiva del senso del teatro.