Ho da poco ricevuto copia del testo drammatico di Enzo Moscato, Tà-kài-Tà, uno tra gli ultimi frutti pregevoli che il Centro studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo, ha prodotto. La curatela di Antonia Lezza, fondatrice nel 1998 del Centro stesso, è un esempio ammirevole di come si edita un testo che proviene dalla scena (il debutto fu a Napoli nel 2012, interpreti principali Moscato e Isa Danieli) e diviene pagina scritta e stampata. La prefazione della Lezza è un lungo, articolato saggio, attentissimo ai particolari, che ci mostra come si studia e si svolge l’ermeneutica dei testi di letteratura teatrale. Certo che il recensore, di fronte alle pagine della curatrice, e agli apparati predisposti (nota all’edizione, nota biografica, glossario dei termini dialettali) non può aggiungere molto altro dal punto di vista interpretativo, specie se, come nel caso di chi scrive, lo spettacolo non è stato visto. Il lettore, quindi, da subito è reso consapevole della struttura formale, delle suddivisioni di episodi, della delineazione dei personaggi.
Di certo, comunque, in quanto lettore mi è possibile, spigolando lungo il testo, e andando per immaginazione e intuito, offrire ai lettori e alle lettrici di Liminateatri alcune riflessioni, magari delle suggestioni provate nella “mia” lettura.
Da studioso di Giovanni Testori non posso che condividere i due presupposti che Moscato pone fin dall’inizio, basati su un atto di fede e assieme di speranza, e cioè che «sia possibile – soprattutto per le intelligenze superiori, quelle più vicine agli angeli o ai démoni – un aldilà, da cui non è interdetto tornare e ancora percorrere queste terrestri lande desolate, per donarci almeno il riflesso, l’eco di una voce, che abbiamo amata». E poi ancora che «il gioco dell’inventare e fingere, riflettere e far splendere la vita – che è il Teatro – non sia mai finito, mai sia stato smesso, da quelli che supponiamo ci abbiano per sempre abbandonati: i cosiddetti Morti, i Tra-passati».
Ne deriva, e lo scrivo come difficile, intrepida conquista, che anche per il grande drammaturgo, attore, cantante, antropologo napoletano, il punto massimo del Reale e della Vita coincide con quello della Finzione teatrale. Ne deriva che il personaggio in primis evocato, Eduardo De Filippo, pur quasi assente nei riferimenti culturali e della tradizione italiana e napoletana seguiti da Moscato, in questo testo, pur nato a quanto mi risulta per commissione, si pone come “persona” oltreché come “personaggio”; ne consegue che il drammaturgo d’oggi non va alla rincorsa di dati biografici, tra l’altro molto conosciuti, e in gran parte scontati, ma per intuizioni, per consonanze irriflesse, tenta di entrare nell’anima di Eduardo, e nella sua mente creatrice, che lo appaia anche a Pasolini, nel ricordo del film su San Paolo, che avrebbero dovuto fare se il poeta non fosse stato ucciso nella notte fra l’1 e il 2 di novembre del 1975, e che sarebbe uscito col titolo Tà-kài-tà (Questo e quello).
Non proprio tutto fila liscio, ad esempio nel ricordo dei fratelli di Eduardo, probabilmente troppo negativo nei loro confronti. L’invenzione straordinaria, invece, è il ricordo scenicamente espresso di Luisella, la figlia di De Filippo e Tea Prandi, deceduta in modo banale (nell’inverno del 1960 sciando al Terminillo) e quindi ancor più lacerante, «ferita» insanabile, mai guarita nell’interiorità eduardiana, nella quale si spalancarono abissi che Moscato tenta per via di intuito di esplorare. La fanciulla apparirà in una specie di teca quale si può vedere in molte chiese che conservano le spoglie mortali dei santi.
Dalla lettura mi pare di poter affermare che quello di Moscato è un rito religioso, spirituale (a-confessionale, o meglio secondo la Confessione del Teatro vero), con alcuni elementi e tratti scenici (ad esempio i fiori disposti come nello Hanamichi del teatro Kabuki) di foggia cerimoniale; come pure le casacche bianche che i due interpreti-sacerdoti devono indossare nel rileggere ed evocare molti “pezzi” citati dalle opere eduardiane. E così pure la presenza di Fantasmi e Spiriti richiama uno dei paradigmi del teatro nipponico di tradizione (ad esempio il Nō): la convivenza tra figure “divine”, spirituali, e presenze terrene, in carne e ossa, che nel teatro s’incontrano.
Per chiudere, invito i lettori e le lettrici alla lettura del testo drammatico di Moscato, non tanto o non solo per i suoi valori artistici, ma soprattutto per i suoi fondamentali input culturali, antropologici, estetici.
Enzo Moscato, Tà-kài-Tà (Eduardo per Eduardo), a cura di Antonia Lezza, Editoria&Spettacolo, Spoleto (Pg), 2020, pp. 129, euro 12,00.