Una truppa di italiani a Innsbruck. È il 1653 e sono Antonio Cesti, cantante e compositore, Giovanni Filippo Apolloni, librettista, Anna Renzi, Filippo Bombaglia detto “Monello”, Antonio Maria Viviani, Antonio Pancotti, Pompeo Sabbatini, cantanti. Entrano proprio quell’anno al servizio di Ferdinando Carlo d’Asburgo, arciduca dell’Austria Anteriore e conte del Tirolo, sposato con una Medici – vizio di famiglia, ereditato dal padre. Proprio un anno prima, durante un suo viaggio per le città dell’Italia settentrionale più evolute in campo artistico, le splendide corti, deve aver incontrato il giovane aretino Cesti, autore già di due opere per Venezia, lo assume alla corte asburgica per l’anno successivo. Nel 1657, dopo le nuove L’Argia e L’Orontea (e una ripresa del veneziano Cesare amante) nascerà La Dori, l’opera più rappresentata nel Seicento in Italia, secondo il musicologo Carl B. Schmidt: non meno di 30 produzioni attestate: Firenze, Torino, Venezia, Milano, Parma, fra le altre, ci hanno lasciato 4 major manuscripts ancora consultabili, 26 libretti, (tra il 1661 e il 1689), 14 diversi prologhi rimasti, scritti di volta in volta per l’occasione celebrata dalla messinscena.
La trama configura La Dori come una pièce ad agnizione, in cui i previsti doppi sponsali, patrocinati dal ritrovamento di un documento che ristabilisce i ruoli, hanno luogo nel finale, dopo poco più di un’ora e mezza di musica, tra scene comiche e patetiche, in quella democrazia dei livelli precedente alla normalizzazione dell’opera seria e al confinamento del triviale nelle parentesi degli intermezzi.
Laborioso, prima del finale, il peregrinare dei protagonisti, che sembrano allontanarsi sia nello spazio (dall’Egitto a Babilonia), che nel tempo (dall’infanzia che li destinava al matrimonio all’età adulta), e nell’identità. Anche questa è infatti messa in crisi: ben due dei quattro protagonisti vestono panni non propri. Dori, principessa egiziana, si finge uomo con il nome di Alì, fatto schiavo dai pirati; Tolomeo, egiziano anche lui, è in panni femminili (Celinda), e ama Arsinoe, sorella di Dori, promessa però ad Oronte, che non la ama – lui pensa a Dori, il genitore gliela destinò in fasce, ma ora è creduta morta. Non basta: se Oronte sembra per un momento accendersi d’amore per Dori/Alì in spoglie maschili, anche la bella Arsinoe quasi cede alla seduzione di Tolomeo/Celinda il quale, sempre vestito da donna, fa girare la testa a Erasto, il virilissimo capitano delle guardie di Oronte. Intanto scorrazza per la scena Dirce, la nutrice, voce di tenore, vecchia libidinosa attratta sia dal servo Golo che dal creduto uomo Alì, a cui, trovatolo addormentato, strappa qualche bacio: «Ha la gola scoperta e chiuso il volto / s’io bacio quella e faccio ai labbri ingiuria, / è peccato di gola o di lussuria?» si domanda, cavillosa. Senza dimenticare Bagoa, eunuco a guardia del serraglio babilonese, «mezzo uomo, mezzo donna e tutto bestia», come lo definisce proprio Dirce.
A tutto ciò vanno aggiunti due dettagli non insignificanti, il primo è che le voci sono quasi tutte femminili (soprani, mezzosoprani, contralti), il secondo è la contingenza storica per la quale, al momento della prima rappresentazione dell’opera a Innsbruck, non vi erano donne nella “troupe” dei cantanti a corte, essendo Anna Banti tornata in Italia nel 1656. Tutti i ruoli femminili (ma, a questo punto, quali…?) erano sostenuti da uomini, evirati cantori.
Una truppa di italiani a Innsbruck – di nuovo. È il 2019, e sono Ottavio Dantone, clavicembalista e direttore, Stefano Vizioli, regista, e, tra gli altri, Francesca Ascioti, Federico Sacchi, Francesca Lombardi Mazzulli, Alberto Allegrezza, Pietro Di Bianco, cantanti. Si tratta della messa in scena, di La Dori, di Antonio Cesti, qui accompagnata dal sottotitolo La schiava fedele, ora disponibile in DVD Naxos.
La caratteristica principale della produzione è la seduttiva accessibilità, a onta di quanto raccontato finora. La trama avviluppata non è un problema, grazie prima di tutto ai suoi interpreti: l’Alì/Dori di Ascioti, dolente ma asciutta, sicurissima nell’articolazione dei recitativi, regala brividi d’emozione nell’accompagnato finale, quando finalmente si svela donna. Con lei Rupert Enticknap, un Oronte con tratti nevrotici, generosamente isterico, imperfetto nella dizione ma dal timbro dolcemente ambrato che emerge rotondo in “Rendetemi il mio bene”; Francesca Lombardi Mazzulli, Arsinoe vocalmente voluttuosa eppur capace di ironia; il Tolomeo ambiguo e androgino dalla chiara, incisiva voce di Emőke Baráth; Alberto Allegrezza, un terremoto di Dirce sgangherata, impenitente, comicissima. Con l’intervento delle belle voci gravi, che sciolgono la particolare tensione generata dall’agone degli alti registri, La Dori è un godimento, che fila via fino all’ultima nota, mettendo in secondo piano una trama poco limpida. D’altra parte, il tipo di fruizione pensato per questi lavori non imponeva di seguirne lo svolgimento piega per piega. Era il susseguirsi dei momenti, dei caratteri delle emozioni (degli affetti, si sarebbe detto più tardi) che contava, e il modo in cui testo e musica li comunicavano con i loro specifici strumenti: l’arguzia dei versi, e i loro rivestimenti, per i quali Cesti abbonda di arie, di cui è considerato specialista, ariosi, recitativi secchi, e tre ma significativi brevi accompagnati. Oggi, per chi ascolta e guarda La Dori, si tratta di trovarli incarnati non tanto in personaggi ben sagomati, quanto nei corpi dei cantanti – il corpo, questo totalizzante, pericoloso, ambiguo strumento, un corpo sonoro, poi, più di qualunque altro. E questa produzione riesce nell’impresa.
Dantone non forza i tempi della sua Accademia Bizantina, e non indulge in caratterizzazioni timbriche troppo esteriori, non mette mai una nota in contrasto con i cantanti o con l’azione scenica, ma vi si accompagna docilmente e da essa si lascia accompagnare, impastando un suono che potremmo un po’ impulsivamente definire naturale, giusto. La nevrosi del torturato Oronte, la sofferenza della disperata Dori, l’incredulità della rifiutata Arsinoe, tutto dal palco e dalla buca del teatro, attraverso la ripresa non sempre centrata di Karen Katchatryan, arriva direttamente all’ascoltatore, mettendolo di fronte a un viaggio musicale affascinante, senza momenti di stanchezza. E Dantone fa il “regista” in campo.
Da tutto ciò, da quel turbine queer di mutevolezza, apertura alle strane combinazioni della vita e dell’arte, non può che scaturire il divertimento. E se c’è un regista che sa divertirsi con i suoi cantanti è Stefano Vizioli. L’andirivieni degli “inganni felici” dei poveri amanti è un moto scenico senza sosta: solo Vizioli sa far saltare, correre, abbracciarsi, rotolare i cantanti così. Solo lui sa muovere il palco, piegarlo ogni volta per dargli il giusto ritmo (basta un passaggio di cuscini al volo, sul fondo, in penombra). Egli non è regista che ambisca a usare musica e trama come strumenti registici, è anzi regista che usa i propri strumenti teatrali per la musica e per la trama, tentando insomma di illuminarle (“illustrarle”, si sarebbe detto una volta). Davanti alla cornice di una scenografia semplice e non indenne da esotismi, fa un uso millimetrico di decine di piccoli moduli, di cadenze, potremmo dire, da adoperare per precisi appuntamenti musicali: un allontanamento di due personaggi interrotto da un braccio teso, afferrato all’ultimo momento, un salto al collo, un repentino darsi le spalle, una scarpa che si sfila, un lento incedere verso il pubblico, fieramente, un commento o una mancanza di commento, un silenzio alle spalle del protagonista. E tutto ciò è una fedele traduzione scenica della musica. Luci: contro la moda della freddezza, policrome, a volte quasi azzardate; costumi: da gustare nel dettaglio delle fantasie e dei volumi, attraverso la ripresa televisiva.