Una volta mi capitò di leggere a mia nonna una lettera d’amore. Ero convinta che avrei trovato in lei il coraggio che mi mancava per consegnarla e invece, con mia grande sorpresa, mi disse che era ridicola. E poi aggiunse che in fondo tutte le lettere d’amore lo sono. Non mi spiegò mai veramente il perché ma me lo fece intuire, suggerendomi un esercizio: leggere la lettera una prima volta e poi una seconda. Solo così me ne sarei resa conto. Credo di aver compreso, solo dopo tanti anni, che cosa volesse dirmi veramente. Ho ritrovato un po’ della sua saggezza in O d’amarti o morire di Francesca Guercio, pubblicato da Polidoro Editore (Napoli, 2021).
A un primo sguardo potremmo credere che si tratti di un romanzo rosa, come anche la copertina suggerisce. Ma presto scopriamo che ne è l’esatto capovolgimento. Questo forse avremmo dovuto capirlo dalla figura di donna, appunto rovesciata, che sembra abbandonarsi alla gravità, o meglio, accettarla. La malcapitata ha avuto la sfortuna, comune a molte donne, di imbattersi in un narcisista patologico. E fin qui sembra una storia lineare. Ma il punto a cui questo innamoramento la spinge assomiglia più a una voragine profonda e abissale, come quella del Grand Canyon. È qui che decide di gettarsi durante la pausa di un viaggio organizzato, desiderando porre fine alla sua ossessione d’amore. Non mi è difficile immaginare una colonna sonora per questa sua caduta rocambolesca. Non posso non pensare a Io vivrò senza te di Battisti e in particolare al verso: «Che non si muore per amore è una gran bella verità». Verità apparentemente smentita dalle pagine di questo romanzo.
Per il gesto folle e sconsiderato che la protagonista ha commesso c’è una punizione degna di un girone dell’Inferno. Si tratta infatti di un vero contrappasso dantesco e in particolare del secondo tipo, quello per analogia, quando la pena è uguale al peccato. Tanto questa donna ha desiderato stare accanto a quest’uomo sfuggente, quanto deve arrivare ad odiare il fatto di averlo vicino. Come i lussuriosi, che si sono lasciati travolgere dalla passione e che ora sono travolti dalla bufera, così lei, dopo la sua morte, è costretta a seguire lui in tutti i suoi spostamenti. Divenuta invisibile, assisterà alle prove dei suoi spettacoli, lo seguirà perfino al centro anziani dove insegna controvoglia. E cosa ancor peggiore, sarà con lui anche quando è con altre donne, tra cui la moglie. L’invisibilità a cui lui l’aveva ridotta si radicalizza al punto da fare di lei un fantasma. All’inizio l’avventura sembra quasi idilliaca: una trasposizione moderna della favola di Amore e Psiche di Apuleio. Anche lei, come Psiche è costretta a stare accanto all’amato a sua insaputa e ad ammirarne la bellezza mentre dorme.
«Non sono mai stata vita come da quando sono morta». È l’affermazione che riassume il senso e lo spirito del romanzo. Da quando il destino l’ha messa di fronte alla verità che si era ostinata a ignorare, tutto le è chiaro: la nostra sofferenza in amore è ridicola, soprattutto quando ci offusca lo sguardo al punto da non permetterci di riconoscere chi abbiamo di fronte. In questo romanzo c’è senz’altro un prima e un dopo, segnato dalla morte. Solo dopo la protagonista rilegge il suo passato, rivede i suoi comportamenti e rimpiange quello che Proust avrebbe senz’altro definito un temps perdu.