L’inconscio come guida, un obiettivo per riprenderla, immagini a ispirarla. La Treccani la cita alla nuovissima voce cyber-performance come una degli artisti più significativi di questo linguaggio in Italia. In realtà Francesca Fini è un concentrato di energia e vitalità, una di quelle artiste che non si fermano mai e che sono sempre un passo avanti al resto. Capace di stare al buio e in solitudine per giorni per creare, quando esce fuori da quello che chiama il suo “utero”, restituisce performance che mai lasciano indifferenti, in grado di stupire, emozionare e, soprattutto, di creare interrogativi.
La tua arte spazia dalla performance alla regia, dall’interaction design alla (hyper) grafica, passando per una miriade di ibridazioni e contaminazioni: da dove nasce il tuo modo così singolare di raccontare?
Ho sempre avuto una predisposizione nei confronti della narrazione perché ho iniziato scrivendo romanzi e poesie. Il mio primo romanzo Così parlò Mickey Mouse, pubblicato dalla casa editrice Ediesse, che raccontava un mio viaggio negli Stati Uniti, è stato il traino verso la produzione di video. Ci fu infatti una casa di produzione cinematografica che aveva letto il libro e ne voleva trarre un film. Cosa che poi non successe ma che mi portò a lavorare per questa casa di produzione dove imparai a utilizzare le prime videocamere camcorder, digitali e semi-digitali, iniziando ad avere un rapporto con il mezzo video che prima non avevo se non a livelli molto amatoriali. Quindi tutto nasce dal mio desiderio di raccontare ma di farlo in maniera surreale, stessa caratteristica del mio romanzo che non aveva gli elementi narrativi classici ma legati più alla musica o alle arti visive che alla letteratura. E dunque il salto nel mondo dei video è stato automatico. I racconti quindi che faccio attraverso l’obiettivo non sono mai lineari, consequenziali o cronologici ma sempre simbolici ed emotivi. Sono dei quadri che si susseguono e che raccontano una storia che in realtà parla all’inconscio, mai alla ragione. Non parlano a quella porzione della nostra mente che è abituata a ordinare le cose, alla nostra parte cartesiana allenata a rintracciare dei segni e dei percorsi lineari. Ed è proprio per questa caratteristica che la mia videoarte è aperta a diverse interpretazioni anzi le incoraggia perché dipendono anche dalla reazione chimica che si crea con il pubblico e che sarà diversa per ciascuno.
Come nasce una tua opera?
Cerco un’emozione, un’immagine dalla quale poi derivano le mie storie. È proprio un modo diverso di vedere le cose che distingue chi pensa per storie e chi, come me, pensa per immagini. Non c’è un modo giusto o corretto di procedere, sono due modalità diverse. In passato ho avuto l’opportunità di trascorrere un periodo di residenza durante l’International Summer Program al Watermill Center di Bob Wilson negli Hamptons, vicino New York. Lì ogni estate Wilson prepara gli spettacoli che poi porterà in giro per il mondo durante l’anno e lo fa lavorando con una metodologia visiva, appunto per immagini, che è molto vicina al mio modo di creare. Ovviamente tutto cambia nel momento in cui ho un committente perché in quel caso lavoro su un tema che mi viene commissionato.
Come avviene un tuo processo creativo?
Quando vedo un’immagine che mi colpisce la faccio decantare nella testa, lasciandola maturare nell’inconscio perché è proprio l’inconscio che deve lavorare mentre io faccio altro. È come se avessi una persona che lavora per me dietro le quinte, nell’oscurità, e che poi quando ha finito il lavoro me lo presenta e dice: ecco che cosa ho preparato. L’inconscio è così, almeno per me.
Ci puoi fare un esempio?
Nella mia performance Fair & Lost per esempio utilizzo degli elettrodi terapeutici che danno delle scosse elettriche. Regolandoli al massimo della loro potenza li posiziono su entrambi gli avambracci in modo tale che la contrazione sia talmente forte da creare una sorta di Parkinson eterodiretto per cui non riesco più a controllare le mani. Durante la performance cerco di truccarmi mentre sono sconvolta da queste scosse elettriche che di fatto impediscono di compiere questa azione nel modo preciso in cui dovrebbe essere svolta e il risultato è che il viso si trasforma in una vera e propria maschera. In questo caso l’idea è nata da una mia vicenda personale: in quel periodo avevo avuto dei problemi muscolari e avevo questi elettrodi in casa. Quando li usavo mi sono resa conto che ero assolutamente impossibilitata a utilizzare le mani perché ero in balia delle scosse provocate da un oggetto esterno a me. È stato solo dopo un paio di giorni che mi è venuta in mente l’idea di utilizzarli per creare una performance. È come se avessi dato un compito al mio inconscio che poi ha lavorato per me e ha partorito questa idea. Poi è chiaro che i significati di Fair & Lost sono molteplici: dal conflitto tra la nostra volontà e i condizionamenti sociali, all’abuso sulle donne operato dai mainstream media che ti costringono a essere sempre bella, perfetta e in ordine. E se ne potrebbero aggiungere migliaia. Per questo non sono furbate ma vengono fuori da un lato oscuro perché c’è una parte del cervello che lavora per noi e ci porta dove vogliamo. Il problema è che non la sfruttiamo abbastanza e che va alimentata perché è un animale voracissimo.
Le tue performance sono molto fisiche e Fair & Lost ne è solo un esempio: cos’è per te il corpo?
Il corpo è il mio strumento fondamentale quello che mi permette di entrare in relazione con gli altri, con il mondo esterno ma è anche il mio modo di esprimermi. È la mia tavolozza perché non è qualcosa che riceve ma qualcosa che dà, che imprime un segno al mondo che mi circonda. È uno strumento fondamentale di conoscenza e di trasformazione del mondo esterno. È chiaro che si modifica col passare del tempo, quindi il suo modo di agire, di interferire, di imporsi e di trasformare l’esterno cambia perché diventa più consapevole, più sicuro, più addestrato come il corpo di un atleta. Poi cambia anche perché io cresco quindi diventa più esperto ma anche meno capace dal punto di vista atletico. Ogni giorno vive un cambiamento, una trasformazione.
Come si fa a far dialogare qualcosa di così concreto come il corpo con qualcosa di così astratto come la tecnologia?
In realtà sono cose che si sposano benissimo perché se si considera la tecnologia non come qualcosa di esterno nei confronti della quale nutrire diffidenza ma come una nostra protesi, un nostro strumento, è chiaro che ciò che più interessa è sapere che cosa si può fare con questo strumento. Io ho avuto il mio primo computer a 11 anni quindi la tecnologia fa parte da sempre della mia vita e non ne sono intimidita. Anzi ciò che faccio artisticamente nelle mie performance è proprio andare a cercare in quello strumento quello che mi serve. Come ci ha insegnato la cultura cyberpunk da cui io provengo, la tecnologia si innesta sul corpo e diventa protesi che lo amplifica e, nel bene o nel male, lo porta verso una dimensione altra che deve essere abbracciata, vissuta e sperimentata comunque.
Un lavoro che porti avanti quasi sempre da sola e anche di notte: cos’è per te la solitudine?
La solitudine della notte per me è una condizione assolutamente ideale perché il resto del mondo dorme e io sono in completo dialogo con me stessa. Il mio studio diventa allora una sorta di “utero” perché si trova in una parte seminterrata della mia casa. La notte amplifica questa sensazione di essere completamente fuori dal mondo: sono scollegata da tutti i bisogni, da tutti i problemi della vita quotidiana ed è un momento solamente mio in cui posso parlare e dialogare con me stessa in una sorta di meditazione. Sono un po’ un cane sciolto che vive in solitudine. Certo, ha i suoi pro e contro perché sono l’unica responsabile di ciò creo che significa anche portare completamente il peso delle mie scelte artistiche. Nel corso del tempo ho imparato anche a vivere questa condizione in maniera assolutamente tranquilla. Oramai niente mi tocca, né le critiche né i complimenti rispetto al mio lavoro. Io vado per la mia strada.
Se le critiche o i complimenti non ti toccano più, che ruolo ha per te il pubblico?
Il pubblico è essenziale perché diventa l’elemento feedback su cui posso costruire il mio lavoro. Ma parlo non di un feedback relativo al fatto che la performance possa piacere o no, anche perché nella maggior parte dei casi il pubblico non è mai assolutamente sincero se non in rarissimi casi. Ciò che trovo molto interessante è invece cosa ha pensato, come ha interpretato la performance, cosa gli è rimasto dentro perché è lì che vengono fuori spunti stimolanti.
Lavorando in solitudine, come fai a essere contemporaneamente dietro e davanti alla telecamera?
L’80% del mio lavoro nasce così: la telecamera sul cavalletto e io davanti, da sola. Si tratta di un lavoro lunghissimo perché spesso mi devo fermare. Per ovviare a questo ho individuato nel mio studio dei punti strategici dove posiziono le telecamere così ho a disposizione tanti punti di vista diversi che poi posso montare. Nel restante 20% utilizzo dei cameramen che mi aiutano almeno nella fase delle riprese.
Hai ideato e realizzato la nuova piattaforma per lo spettacolo digitale De-Pink: di cosa si tratta?
Questo processo è stato accelerato dalla pandemia e dal fatto che non è stato più possibile fare performance nelle gallerie o nei teatri. In realtà però era un processo che avevo iniziato già da tempo. La presenza digitale del performer è un esperimento in crescita che sta raccogliendo critiche e complimenti allo stesso tempo, utilissimi in egual misura a sviluppare, calibrare e far evolvere questo strumento. Parlo ovviamente del ricreare su una piattaforma l’esperienza della performance dal vivo che si ciba di tutta una serie di elementi che fanno parte del site-specific cioè l’odore della stanza, la relazione, il rapporto, l’interazione. Mandare quindi una performance in streaming non ha senso perché si perde l’elemento underground, sporco, provvisorio che la rende forte nello spazio e quindi non funziona. Mi sono allora chiesta: come tradurre quell’elemento interattivo, surrealista, colorato, sporco e underground della performance nello streaming? E ho pensato che, come la performance si espande in una galleria, così deve farlo nello schermo contaminandosi con tanti elementi appunto sporchi, interattivi, colorati e surrealisti che ci possono essere nello spazio virtuale. E questo l’ho ottenuto attraverso un’interfaccia che contiene tanti elementi con cui è possibile interagire mentre si assiste alla performance.
Quali sono questi elementi?
La chat ma anche elementi di realtà aumentata per cui mentre si guarda la performance si possono attivare delle immagini che si sovrappongono al video oppure si può fare un mixaggio sonoro e decidere qual è la colonna sonora che la accompagna. In pratica tutta una serie di piccoli elementi interattivi che, espandendo lo schermo, coinvolgono chi guarda rendendolo partecipe. Proprio come accade in presenza perché ognuno nella sua testa si costruirà una propria visione della stessa performance. E dato che poi la performance è itinerante ogni stanza avrà degli elementi caratteristici di intrattenimento e interattività. Credo che sia un modo per trovare un nuovo linguaggio più adatto alla performance art.
Hai delle ossessioni o dei rituali quando crei?
Ho tantissime ossessioni e tantissimi rituali quando lavoro a un progetto! Per esempio il mio studio deve essere immacolato, uno specchio, pulito in ogni angolo. Tutto deve essere super ordinato e allineato. Un’ossessione quasi da serial killer la definirei tant’è che spesso mi spaventa. A questo aggiungerei anche dei rituali culinari perché quando sono sotto creazione della performance salto completamente il pranzo altrimenti si spezza la giornata, salvo nutrirmi di Coca-Cola e cioccolata. Pura follia!