In un universo stanco e in dissoluzione come il nostro, la festa è sia una tentazione che un rimedio. C’è infatti nell’evento festivo un’ambiguità sinistra: un potenziale che può essere creativo e insieme distruttivo. La festa può essere un’occasione per rinsaldare legami e istituirne di nuovi all’interno di una comunità, o per rigenerarsi dalle fatiche che si sono accumulate in passato. Essa è un gioco che fa recuperare una serenità danneggiata, se non perduta. Ma la festa può anche essere un momento per stordirsi e dimenticare i problemi che ci affliggono, i quali si riaffacciano però con più forza in seguito, non appena si torna alla condizione di normalità. Qui si cela l’accezione più negativa della dimensione del divertimento. Secondo l’etimologia del latino diverto, con l’atto del festeggiare si “volge l’attenzione altrove”, la si sposta dalle difficoltà che dovremmo affrontare all’esperienza di un piacere senza costrutto. La festa è allora un “puro neutro”. Può tramutarsi in un grande bene come un terribile male, a seconda del modo con cui partecipiamo all’evento.
Come si fa a rendere l’occasione festiva più benefica che malefica, più orientata alla scoperta e all’incontro che allo stordimento? A questa domanda sembrano rispondere due festival teatrali. Il primo è Tempi moderni. La commedia rivista, a cura di ALDES e da un’idea di Roberto Castello (14 luglio–1°agosto), all’interno del quale sono state organizzate molte iniziative in corti, piazzette e parchi del comune di Capannori (LU). Il secondo è Trasparenze 2021 del Teatro dei Venti, che ha allestito buona parte del suo programma nel paesino appenninico di Gombola (MO). Pur nelle loro specificità, i due festival sono accomunati da una riflessione sul senso di fare festa. Si cerca, in entrambi i contesti, di conservare il momento gioioso e di incontro con i membri della comunità, senza perdere di vista il confronto con le difficoltà attuali. Il gioco festoso è qui un modo non di stordirsi, bensì di rigenerarsi per affrontare meglio la serietà del vivere.
Questa dimensione seria dell’elemento giocoso non dipende solo dalla direzione sociale e politica assunta consapevolmente da entrambi i festival. ALDES prende questa via cercando di portare la sua proposta artistica nei luoghi più distanti dalle grandi città della Toscana e usando da “moneta” di scambio (= di acquisto dei biglietti per spettacoli o concerti) il dono di beni di prima necessità. Il Teatro dei Venti va invece in tale direzione socio-politica con il lavoro Odissea, perché tramite esso la compagnia continua il suo lavoro con le carceri di Castelfranco Emilia e Modena, finalizzato a una rifrazione virtuosa tra la prigione e il teatro. I detenuti – coinvolti come attori e creatori dello spettacolo – contribuiscono con la loro umanità a un evento teatrale che non è solo estetico, ma a loro volta gli artisti creano un’opera di poesia che non è riducibile a un servizio di reintegrazione sociale. I due festival propongono così, con l’allestimento di una festa o di un rito teatrale, un’altra ipotesi di economia e di collettività, che cerca di unire la dimensione spirituale con quella concreta e materiale. Questi piani apparentemente opposti assumono un senso, del resto, se e solo se vanno in parallelo. «Non di solo pane e di solo spirito vive l’uomo», si potrebbe dire integrando il motto «Non di solo pane» del Cristo dei Vangeli canonici.
Ma sarebbe a sua volta riduttivo pensare che la festa teatrale ha senso solo come mediatore estetico di un accadimento dalle ricadute utili sul piano comunitario. Mi pare che sia rintracciabile, infatti, anche un recupero da parte di questi due festival della dimensione della festa come atto cognitivo. L’atto di festeggiare può fungere da mediatore per arrivare a una conoscenza superiore della realtà presente e/o del nostro passato. Mi limiterò, per esigenze di spazio e di tempo, a due soli esempi, uno tratto dal già citato Odissea di Teatro dei Venti e uno dalla ricerca di Andrea Cosentino, ospite di entrambi i festival.
La festa può condurre a un avanzamento di conoscenza perché attiva, anzitutto, un processo di viva concentrazione. Il lavoro Odissea è forse icastico da questo punto di vista perché, paradossalmente, torna a una modalità conoscitiva che era propria del rapsodo antico, ossia di colui che recitava i canti di Omero (e di altri poeti) all’interno di feste pubbliche o private. I racconti omerici erano noti alla comunità a cui si rivolgevano, eppure venivano ri-raccontati per riportare alla memoria il sapere condiviso e creare delle associazioni conoscitive tra il passato mitico con la vita presente. La stessa Odissea di Omero contiene molti di questi momenti festivi e insieme sapienti. Le disavventure di Ulisse vengono raccontate più volte dentro il poema. Omero le narra partendo dall’isola di Calipso, ma chi legge l’Odissea si imbatterà in altre versioni più condensate. Le ascolterà ri-raccontate, ad esempio, da Ulisse ospite presso i Feaci, o le sente profetizzate dall’ombra di Tiresia che l’eroe incontra nell’Ade. In ciascuno di questi casi, tuttavia, l’identico racconto assume una risonanza particolare. La materia nota risuona come ignota a seconda che venga narrata come presente, come passata, come futura. Ogni volta, pertanto, la rinnovata narrazione fa scoprire qualcosa che il lettore o ascoltatore non sapeva, perché la guarda da un’altra angolatura. Se ci si concentra sull’intera Odissea, si riconoscono al suo interno infinite odissee.
Ora, anche lo spettacolo omonimo del Teatro dei Venti assume questa dimensione. Esso ri-racconta più volte l’Odissea omerica e in ciascun caso ci mostra l’ignoto di questa materia apparentemente nota. Prendiamo il caso specifico della trasgressione del giuramento di astenersi dal mangiare le Vacche del Sole da parte dell’equipaggio di Ulisse, che si attirerà così l’ira degli dèi che farà perire i marinai in mare. Il Teatro dei Venti trova almeno tre modi di narrare questa vicenda. C’è il piano puramente narrativo, ossia i nudi fatti che l’attore Vittorio Continelli – autore del format Discorsi sul mito e che da tempo collabora in sinergia con il Teatro dei Venti – recita al pubblico durante il viaggio in bus verso le carceri di Castelfranco Emilia / Modena, anche per dare delle coordinate agli spettatori più ignoranti del mito di Omero. C’è la modalità dialogica, che lo spettacolo Odissea restituisce nella scena finale. Qui si assiste a un dialogo tra Ulisse e Penelope appena ricongiunti, dove la donna usa l’episodio delle Vacche del Sole (e altri) per rinfacciare al marito di non aver abbastanza pensato a lei, che ha amato più le sue avventure che la propria sposa. C’è infine la riproduzione simbolica di questi stessi fatti, attuata dai detenuti in carcere e che pone il mito sotto ben altra luce. Uno dei momenti più teatrali di Odissea consiste, infatti, nel punto in cui i carcerati rappresentano l’equipaggio che infrange il giuramento di astenersi dalle Vacche del Sole. L’azione genera un cortocircuito associativo e poetico che ci porta oltre Omero. Si coglie, in effetti, che i detenuti sono la concretizzazione attuale di queste figure mitiche. Al pari dei marinai di Ulisse, anche loro sono stati condannati e privati della vita per essere venuti meno a un patto giurato con la società: non uccidere, non rubare, non condurre atti impuri e sovversivi.
La festa condotta da Odissea del Teatro dei Venti ci mostra, in conclusione, che un identico evento può essere conosciuto in modi infiniti. Attori e rapsodi ci fanno capire, con le loro belle e variegate narrazioni, che non c’è alcuna verità definitiva sui fatti di Ulisse e sulla nostra stessa vita. Noi non sappiamo niente, nemmeno cosa narri l’Odissea che sta alla base della nostra civiltà, dal momento che si possono dare del suo argomento interpretazioni e angolazioni differenti. Da ciò segue anche che ignoriamo cosa significa essere civili, o cosa dobbiamo fare della poesia omerica.
Andrea Cosentino presenta, di contro, il contraltare del processo di conoscenza per concentrazione. L’artista innesca nei lavori Un Dante corretto bravo grazie (che ha debuttato con Tempi moderni) e Fake Folk (svoltosi a Trasparenze 2021 e prodotto con la collaborazione di Teatro Forsennato / Teatro Quarticciolo di Roma) quello che potremmo chiamare un atto di scoperta per dissoluzione. Il tema preso a oggetto in entrambi gli spettacoli consiste, mutatis mutandis, nella ricerca di ciò che resiste alla corrosione del comico, in altri termini nel riconoscimento di qualcosa che non può essere scalfito nemmeno dal riso più aggressivo e che, pertanto, può essere usato come base per costruire una realtà più duratura.
Cosentino bombarda con il primo lavoro i versi di Dante, con il secondo costruisce addirittura una finta festa di paese per de-costruire la nozione stessa di “festa”. Le armi comiche sono le stesse che chi segue il lavoro del performer conosce e ama: giochi con oggetti di scena improbabili, finti inizi, discorsi senza capo né coda, gesti normali tramutati in qualcosa di assolutamente surreale (citandone uno per tutti, Fake Folk propone la ricetta per cucinare il pane alla «Pietro Micca», che consiste nel preparare un impasto di farina facendolo esplodere con un petardo). L’ilarità generata da tali azioni basterebbe a dissacrare molti argomenti. Eppure, sia Dante che la festa restano illesi di fronte alle gags di Cosentino. L’artista evidenzia che il ridicolo non dissacra, ma intensifica il loro portato serio. I versi danteschi sono sapienti anche perché sono leggeri, ossia una materia linguistica che può essere apprezzata anche a livello popolare – non a caso essi sono scritti in “volgare”.
Fake Folk è invece la parodia di una festa che recupera ciò che la festa ha di autentico e insieme respinge quei tratti che la trasformano in folklore, ossia in una ripetizione amorfa e senza spirito di quanto è stato consegnato dalla tradizione. Sostituendo ironicamente il corteo della Madonna o di una santa di paese con quello di Biancaneve, per non rischiare di urtare la sensibilità o devozione religiosa di eventuali spettatori credenti, Cosentino adotta un dispositivo spiazzante che deride benevolmente chi partecipa al rito teatrale o festivo per semplice abitudine, dunque non ricava nulla di costruttivo. Se ci si reca infatti a una festa perché così si è sempre fatto nella storia del paese, non si condivide davvero il senso di appartenenza alla comunità e non si creano relazioni con gli altri partecipanti all’evento. Nel punto centrale di Fake Folk, si assiste anche a un momento serio di riflessione: un avatar di Biancaneve viene proiettato su uno schermo e diventa il pretesto per poter ragionare sulla vanità della bellezza fisica, che sembra non essere destinata a sparire dalle guance della giovane eroina della favola.
Il resto di Fake Folk è sempre parodico, perché allestisce un finto DJ set, comprensivo dell’attivo coinvolgimento del pubblico nella danza. Di nuovo, con la parodia non viene meno l’esperienza di viva partecipazione all’evento, che è il quid fondamentale della festa. Per concludere, la finzione di Fake Folk è una finzione che dice il vero. Essa distrugge gli automatismi della festa ordinaria per preparare il pubblico a parteciparne a una superiore, in cui ci si diverte e insieme si riflette.
Il discorso potrebbe essere approfondito più a lungo e meglio. Spero però che tali note superficiali bastino a omaggiare il lavoro di due festival interessanti e a suggerire che ci sono “ragioni” profonde per poter fare festa, al di là del mero divertimento. Si festeggia per diventare forse più sapienti.
Tempi Moderni – La commedia rivista, Capannori (Lucca), dal 14 luglio al 1° agosto 2021.
Trasparenze Festival, Modena, Castelfranco Emilia, Gombola, dal 27 luglio all’8 agosto 2021.