Orizzonti Verticali. Un ossimoro fantastico che si ripete da nove anni in Toscana, per la precisione, nel noto borgo di San Gimignano. «Pare che le due torri dei Salvucci abbiano ispirato le Torri Gemelle», osserva una ragazza gentile mentre arriviamo. Se da un lato un po’ i toscani ce la raccontano, dall’altra non è poi così inverosimile immaginare che le proporzioni fra altezza, distanza e superficie delle Torri Gemelle, ancora vive nella memoria dei Millennials, oggi sarebbero state davvero rassomiglianti a quelle due torri che si erigono spavalde sulla cittadina toscana. Si fatica a contarne settantadue (tante ne sarebbero) in un borgo così piccolo, sebbene intatto nella sua compostezza medievale, e, tra miti e leggende, ci pensa il festival Orizzonti Verticali a restituire alla San Gimignano turistica, intoccabile e cristallizzata, un po’ di quella umanità e il fascino che solo i luoghi nascosti e sconosciuti hanno.
Il festival si avvale della direzione artistica di Tuccio Guicciardini e Patrizia de Bari, un progetto a cura della Compagnia Giardino Chiuso e Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee. L’elemento che lo caratterizza distinguendolo da qualsiasi altro progetto nel panorama delle arti performative italiano è l’utilizzo dei cosiddetti hortus conclusus, ovvero giardini di privati cittadini, immersi nel paesaggio spettacolare tipico della Val d’Orcia: location che incorniciano performance per piccoli gruppi di spettatori, installazioni o percorsi itineranti. Il concetto è in armonia con il contesto in cui prende piede, si trova espresso in molti scritti medievali; consiste, per dirla con la direzione artistica, «in un luogo segreto e protetto, dove, isolati dal mondo, si può raggiungere la conoscenza contemplativa».
Raggiungiamo la San Gimignano del festival Orizzonti Verticali il 21 e il 22 agosto, e appena arrivati ci siamo catapultati a seguire il racconto della Global City targata Instabili Vaganti. Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, fondatori della compagnia emiliana, sono stati accompagnati da Simona Maria Frigerio, giornalista e autrice dell’omonimo libro edito da Cue Press (2020), in un incontro pubblico moderato dal giornalista Fabrizio Calabrese, che si è svolto in un giardino con accesso da via degli Innocenti, tra le più panoramiche del borgo. Il libro è il diario di viaggio, un viaggio lungo sette anni, che ha portato la compagnia al debutto a Genova (9 ottobre 2019, Teatro Nazionale di Genova – Sala Mercato) dello spettacolo Global City, un progetto multidisciplinare che ha indagato il presente distopico della globalizzazione attraverso le sue megalopoli, i suoi abitanti e le centinaia di performer con cui Anna Dora e Nicola sono entrati in contatto. Hanno girato in lungo e in largo, da un continente all’altro, coniugando insieme al viaggio la memoria, da quella storica dei popoli a quella individuale, per finire, con un vero e proprio approccio antropologico – come giustamente scrive l’autore della prefazione Enrico Piergiacomi – agli archetipi universali. Il libro, di piacevole lettura e, diversamente da come ci si aspetterebbe, tutt’altro che per un pubblico elitario, cammina a ritroso sul filo dei ricordi e delle sensazioni, dal debutto alle origini del lavoro. Con stile accattivante, e sguardo empatico ed esperto, narra la genesi di uno spettacolo e le evoluzioni di una compagnia, ma anche la storia di due esseri congiunti alle prese con le difficoltà, gli imprevisti, le domande della vita. Rappresenta oltretutto un buon manuale di teatro, perché si focalizza sui processi di indagine e di scrittura, su come un artista interpreta se stesso e il proprio modo di raccontare, di montare uno spettacolo. «Gli attori non sono né brechtianamente estranei, né mimetici, ma percorrono una terza via», spiega durante l’incontro la Frigerio. E ancora si legge nell’introduzione al testo drammaturgico di Nicola Pianzola: «Non amo definirmi un drammaturgo, preferisco dire che sono un attore che scrive i propri testi, un autore sicuramente. Non ho mai composto le mie opere a tavolino comodamente seduto davanti a una scrivania. Ho sempre creato i miei testi agendo sulla scena o in una sala di lavoro durante il processo creativo, molte volte rispondendo agli stimoli di Anna Dora, regista demiurgica, che ha il potere di far scaturire dalle mie improvvisazioni, con una semplice indicazione o suggestione al momento giusto, situazioni, dinamiche e personaggi» (p. 93).
Il farsi luogo in cui contemplare maestri del teatro, ma per onorarne la memoria, prosegue nel Giardino Gigli in via Piandornella, con una performance/installazione che ha reso omaggio a Giuliano Scabia, poeta rivoluzionario della pratica teatrale scomparso lo scorso maggio. Con la collaborazione di Andrea Mancini, ci immergiamo, pensieri e viscere, in una sorta di labirinto animato da libri e fascicoli su leggii come fiori su rami sbocciati. La voce di Annibale Pavone ci accompagna mentre vaghiamo liberamente e curiosiamo tra le pagine dei testi, ascoltando brani editi e inediti di Giuliano Scabia, che, definito anche il Poeta albero e amante dei paesaggi, senz’altro avrebbe apprezzato l’idea. Si sente Scabia in questa fruizione, e il “pieno” che lui ha lasciato: Chi è la cura? Lettere a un lupo, Opera della notte, Canti del guardare lontano, il Canto del monaco Silvano sono alcuni dei titoli dei volumi di cui abbiamo apprezzato l’ascolto.
Ricordare è l’azione che sottende l’intera edizione del festival. D’altra parte, per usare le parole dello stesso Scabia estratte dal Canto del monaco Silvano, «nulla è fuori dal tempo, tranne l’illusione dell’eterno». L’eterno irraggiungibile può essere rincorso attraverso la memoria e solo così può diventare tempo presente. Dal testo scritto del diario di viaggio alla memoria che si fa installazione, opera da vedere e da ascoltare, al Beckett de L’ultimo nastro di Krapp e il diario in forma di nastro magnetico del protagonista. Anche la videoarte e la performance di Irene Pittatore vanno nella stessa direzione: la performance Vasca a remi, purtroppo, non siamo riusciti a seguirla, ma la ricerca dell’artista torinese si esprime già nel Covid- 19 Isolation Journal, il cui video è stato proiettato in loop nel Giardino della Galleria Continua. Il diario audiovisivo racconta il lockdown attraverso una sorta di teatrino situazionista che ha per palcoscenico il bagno del suo appartamento. La Pittatore appare ciclicamente in una vasca da bagno, circondata da oggetti che rimandano a momenti socialmente significativi dell’anno solare, giacendo in contemplazione o compiendo azioni senza una logica apparente. Servendosi di uno smartphone per registrarsi, cattura, immortalandolo, lo spirito del tempo che tutti abbiamo vissuto senza mai scadere nell’ovvio o nel kitsch.
Anche Francesca De Sanctis ha trasformato il limite imposto dalle restrizioni del lockdown in un momento creativo, di profonda riflessione sulla sua vita, facendone una parabola di forza per chi come lei ha vissuto sulla propria pelle Una storia al contrario, è questo il titolo del libro autobiografico che ha scritto durante la pandemia (Giulio Perrone Editore, 2020). Un testo che si legge tutto d’un fiato e che a San Gimignano, durante un incontro condotto dalla giornalista Chiara Dino, ha trovato l’interesse di alcuni giornalisti presenti tra il pubblico, che, con domande e la condivisione delle loro esperienze, avrebbero potuto gettare proprio lì dove non era stato previsto le basi per una conversazione futura. Una storia al contrario attraversa la vita dell’autrice oggi quarantenne. Dopo la laurea al DAMS di Bologna e un diploma di specializzazione ebbe la fortuna di inserirsi nella redazione de L’Unità con contratto a tempo indeterminato, ma dopo la chiusura dello stesso giornale, circa quindici anni dopo, si è ritrovata di nuovo precaria a lavorare come giornalista freelance. Non ci sorprende che dal libro sarà tratto anche uno spettacolo teatrale (interpretato da Elena Arvigo), sia per la sua capacità di entrare in intimità con il lettore, sia per il modo in cui sintetizza la vita nelle sue tappe più importanti, proprio come fa la lingua del teatro, luogo frequentato assiduamente da Francesca per lavoro.
Homing, produzione Arearea della coreografa Marta Bevilacqua, vede quest’ultima accennare a un ecosistema in cui la parola scritta traduce la presenza immaginaria di esseri umani e animali, mescolando movimenti perfettamente in ascolto dei più sottili accenti musicali, teatro di figura e immaginario futurista per arrivare, solo sul finale, a ricordare, in modo un po’ inaspettato e didascalico, l’importanza del rispetto della natura.
Nel buio di un teatro accecante – così sì chiama il piccolo volume pubblicato nel 2016 da Edizioni Clichy e a cura di Giancarlo Cauteruccio – c’è l’esperienza teatrale di quest’ultimo attraverso la drammaturgia di Samuel Beckett, che ha attraversato la produzione di Krypton dal 1989 in avanti. L’incontro con Krapp, L’ultimo nastro di Krapp, avviene sul palco per la prima volta nel lontano 1993. A distanza di ventotto anni dalla prima, lo spettacolo è andato in scena in questa occasione, all’aperto, in un contesto non proprio protetto per un teatro in cui le luci e il buio rappresentano un aspetto molto importante della regia. Scrive Cauteruccio (p. 35): «Se il nero è il buio e il chiaro è la luce, notiamo che L’ultimo nastro di Krapp può essere assunto come un’opera sul buio (…): il buio di Krapp diventerà poeticamente abbagliante (…)». E Beckett «ci condurrà dunque a vedere nel buio». Cauteruccio si può definire un attore beckettiano per eccellenza. Già basterebbe, per apprezzarne l’interpretazione, considerare il fatto che abbia scelto coraggiosamente di ritrovarsi dopo quasi tre decenni, con un corpo trasformato e un vissuto completamente diversi, a recitare un testo a lui caro; un testo non qualsiasi, ma il cui contenuto riflette con amara autenticità sul tempo che scorre e sui desideri mai realizzati di un uomo, fermati al mangianastri trent’anni prima, nell’attimo andato in cui sembrava ancora possibile realizzarli.
Festival Orizzonti Verticali, San Gimignano (Siena), dal 20 al 22 agosto 2021.