Quante memorie in questa idea di scena, quante sopravvivenze, trasfigurazioni, quante eco persistono nel tempo parziale di una attesa, prima che inizi ff_fortissimo, nuovo lavoro in sottrazione di Giuseppe Vincent Giampino che ha debuttato a Short Theatre di Roma. E quella immagine riflessa di uno spazio vuoto che si farà da lì a poco contenitore di segni, groviglio di accenti e “riempito” dalle tante interferenze visive a loro modo percussive, ci appare come un magma che si addenserà al corpo dei due performer, definendone le superfici interiori in quella particolare adesione tra elemento e gesto, geometrie affettive e senso. Siamo alla Pelanda nell’anno del definitivo trapasso di un festival, tra i più connotati di questi anni, verso un altrove programmatico che tiene conto di ulteriori parole d’ordine, più simpatetiche e politiche, certo, nel desiderio di cercare una community non esclusivamente nel côté teatrale, quasi come un nuovo ordine delle cose, ma ben ancorato a un futuro anteriore che lambisce l’adesso e ciò che non è più, in un frullatore di vocabolari e letterature nell’”impressione” sfocata della critica decoloniale, proiettandosi in territori decisamente liberati. Aprendosi così all’era della nuova direzione di Piersandra Di Matteo. Il tappeto nero di danza inquadra una precisa “cornice” a suo modo rifrazione trasfigurata di accumuli ripensati dagli anni Novanta, difatti la simmetria in quella certa tensione propria a uno spazio da poco consumato, in qualche modo agìto direbbe Michel de Certeau, ce lo svela già sovrabbondante di altri archivi evocativi di qualcosa ch’è accaduto, forse poco prima ma ormai andato in pezzi, radicato nella storia recente. Un tappeto non perfettamente teso, anzi con pieghe e ondulazioni improprie, una cassa d’amplificazione piazzata nel riquadro a terra del tappeto stesso mentre l’altra è diametralmente fuori dall’altra parte, sempre a terra, come posizionata a caso (dove nulla è a caso); dal soffitto pendono quattro plafoniere di luci che “inscatolano” percettivamente lo spazio. I due performer entrano dalla parte del pubblico e supini poco distanti tra loro cominciano a “cucire” una micro partitura individuale e allo stesso tempo corale tra i corpi che disattivano e rimettono in circolo spostamenti parcellizzati, in una evidente sconnessione di traiettorie, lentissime dialettiche post gestuali, ormai residuali di eventuali architravi coreografiche di cui non rimane che una traccia persino liquefatta, se non una remota percezione nel dramma che vi si è già compiuto, già consumato dunque, rintracciando in quel qualcosa che non vi è più una sfumatura, un phantasma che sembra rievocato come sporgenza, ovvero un dramma che si espone senza compiersi mai. Si inarcano, strisciano sul tappeto, azzardano quasi ad oltrepassare il “limite” dell’orizzontalità. Ritroviamo in quei corpi un posizionamento critico, un atto di rievocazione e uno stare della danza in quel dramma esposto. Scriveva Vittorio Boarini nel lontano 1981 che «il dramma dell’arte moderna è l’assenza del dramma. Di fronte alla realtà c’è solo la realtà; la realtà è l’essere che incontra se stesso, è la totalità dell’esistente». L’esplorazione strisciante dei corpi di quella perimetrazione è minimale, piccoli passaggi, lente fratture quasi all’unisono che vanno a incunearsi tra le pieghe (quanto mai deleuziane) di una partitura gestuale fatta di pochi elementi, vividi però, mentre procedono con un carico tensivo accentuato anche da una gestione sonora dello spazio misurata quale “controfigura” alle “azioni” e agli interventi scenotecnici che “muovono” il tappeto rigonfiando e asciugando zone in alcuni passaggi. Vibrazioni e frizioni dei corpi sul tappeto sono anch’esse parte del tracciato sonoro in quella trasmigrazione di informazioni dell’uno all’altro, dal corpo alla materia. Tutto è densamente simbolico, e al di là delle dichiarazioni del performer-coreografo nel programma di sala il quale enuncia, tra l’altro, verticalità svuotate, opaca luminescenza o segni che appaiono e svaniscono; il dato simbolico è molto potente e non immediatamente decodificabile così da permetterci di oltrepassare il carattere della struttura e della forma scelte, orientando invece una temporalità per certi versi “trascendente”, una temporalità degli individui nonostante le due figure siano caratterizzate da un “costume” che annulla ogni riferimento figurale: tutto è nel nero compresi berretto e cappuccio, guanti e tuta aderente (anticipando paradossalmente l’outfit di Balenciaga scelto da Kim Kardashian nel recente Met Gala), in una prospettiva dell’azione non narrativa, benché sul finale i due performer prima di uscire verso il fondo sembrano richiamare immagini di Banksy in un gioco di rimandi che portano al 16 ottobre 1968, quando nello stadio di Città del Messico i velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos arrivarono primo e terzo nella finale dei 200 metri piani alle Olimpiadi. Sul podio per la premiazione abbassarono la testa e alzarono un pugno chiuso, indossando guanti neri, dichiarato simbolo di proteste per i diritti civili dei neri. Gesto, oggi, amplificato in un mash-up oltremodo significante e ancora straordinariamente vivo. In linea con la sua speculazione di una danza in emersione ritmica e vibratile, qui dichiarata post-umana, Giampino con ff_fortissimo definisce una ulteriore sintesi dello spazio danzato nell’esercizio di una rammemorazione di grande efficacia e, come lo stesso autore “suggerisce” rifacendosi a Roland Barthes, di una spaesante superficie dell’umano.
ff_fortissimo
concept e coreografia Giuseppe Vincent Giampino
con Riccardo Guratti, Giuseppe Vincent Giampino
dimensione sonora Lady Maru
costume design Rebecca Ihle
luce Omar Scala
outside-eye Marco Mazzoni.
Una produzione TIR Danza
con il sostegno di Teatri di Vetro, Prender-si cura – Mattatoio di Roma, Kinkaleri Spazio K, residenze India del Teatro India-Teatri di Roma e di Anticorpi – Rete di Festival e Rassegne e Residenze dell’Emilia-Romagna nell’ambito dell’azione supportER.
Short Theatre, La Pelanda, Roma, 9 settembre 2021.