L’autunno romano nel suo “cambio di fogliame” offre sempre spunti di riflessione sull’oggi, tant’è che scrutando l’orizzonte avvertiamo nubi tempestose in avvicinamento mentre i panorami si fanno screziati, come un’impressione pittorica divisionista, una compattezza di forme altrimenti evidenziata da risacche e da tratti irregolari, quantomeno emotivamente, raccontano un altro punto di vista. Metafore del tempo dell’attesa. Così la scena sembra ammantarsi di verbalizzazioni consumate, con un piglio ormai da paesaggio borghese, soltanto in spazi “altri” qualcosa accade e attraverso la creazione artistica diventano, gioco forza da anni ormai, contenitori per una cultura contemporanea della scena che nelle sue sfaccettate esposizioni o prese di posizione, non necessariamente “organiche” ma ancora una volta decisamente e ideologicamente minoritarie, si mostrano alla ricerca di quel gesto di reciprocità non scontata tra opera e spettatore. Alcuni appuntamenti riescono persino a rimarcare quella necessità specifica propria all’alveo della formazione o dell’incontro tra spettatore e performer di un diverso, meno disciplinato approccio alla conoscenza del lavoro artistico. In questo territorio di relais tra una liaison convenzionale e una del tutto da reinventare, gli spazi indipendenti svolgono un ruolo determinante, soprattutto in questo curioso momento storico, dove da più parti sembra avvertirsi un nuovo (quanto mai antico) “desiderio” di ritorno all’ordine nella forma, rimarcando consunti abbecedari decifrabili secondo uno stesso “codice” di sempre, ovvero la tradizione (e sull’invenzione della tradizione sono state spese parole, a partire da Hobsbawm), finanche della tradizione delle gloriose avanguardie o dei rimasugli che ne rimangono. Lì a speculare sull’origine o sull’identità, tutti ammennicoli novecenteschi, ormai inservibili. D’altronde roba per critici in costume e danzatori depilati o attori drammaticamente entusiasti del proprio ego, per non parlare di certi studiosi irreggimentati. Tutti a “recitare” il ruolo loro assegnato da pezzetti di potere rosicchiato a non si sa bene quale sistema, di cui sono parte gaudenti. Se nel teatro si fa gran spolvero di autori ovvero scrittori di testi quale panacea di uno stordimento creativo, nella danza la ricerca spasmodica dell’effervescenza momentanea ha prodotto in serie istrionici soli danzati, il più delle volte concupiscenti il gusto mediocre del pubblico, o di un immaginario mondo del bien fait del corpo. Ma poi, per fortuna, ci sono le smarginature, le ri-negoziazioni, le opposizioni linguistiche. Le risacche e i tratti irregolari, appunto. Carrozzerie n.o.t a Roma è uno di quegli spazi in between dove l’autonomia progettuale e la rimodulazione di relazioni istituzionali annoverano una inedita idea di servizio pubblico, proponendo formati in progress di lavori o progetti che si adattino alla configurazione spartana che lo connota, per questo spazio ambìto da artisti che intendano misurarsi con prove dove il tempo è a perdere, senza la necessità di una sintesi. Nelle ultime settimane, in collaborazione con ATCL, Carrozzerie ha ospitato in sequenza due formazioni collocate nel “disordine linguistico” della danza che in quel sovrappiù di parola, suono e immagine ordiscono uno spostamento che non è solo della percezione ma politica, per questo ancora una chiave di volta del concetto di performance. Anna Basti e Chiara Caimmi continuano il loro percorso di indagine autobiografico o, come nella definizione antropologica che ne sottolinea una attitudine, di incorporazione dei significanti delle rispettive storie, laddove ciò ch’è pubblico è necessariamente filtrato da esperienze in soggettiva, lambendo un’emotività intima, segreta. Testimonianza ne è questo What is a fancy word for ending, frammento lucido e incauto (per una sua bellezza scarna, persino feroce) dove ci sono domande sulla vulnerabilità dell’esistenza, sulla fine ma ancor di più sul senso delle relazioni, un quadro malinconico – a volte molto doloroso e a volte esilarante – che prova a ridistribuire i pesi dei vuoti e dei fallimenti. Una partitura a due, in questa fase progettuale, in cui si focalizzano alcuni aspetti e alcuni gesti delle due performer, levigando il passato sul crinale di un presente instabile: una in tutù a provare e a riprovare passi di balletto come per cercare di ritrovare un tempo fisico e una memoria emozionale di un prima (prima che accadesse, prima che si manifestasse, prima di un adesso vulnerabile) nell’insistenza ossessiva e sfiancante di una perfezione impossibile, in continuità con lavori che sono germinati in quella frizione estetica nell’impossibilità di una aderenza al canone quali sono stati Apollon di Florentina Holzinger, Pasodoble di Cristina Kristal Rizzo e Opacity #1 di Salvo Lombardo; l’altra, che riemerge da una coperta-casa piena di buste lì a ricompattare una vita, si serve di un assolo in un parlato confidenziale, del tutto “disossato” (col fantasma di Artaud riportato a una disposizione quotidiana e rovesciata), mentre scorrono alle spalle in video parole e immagini in una sovrapposizione di segni quali eco alle domande che non avranno risposta. Cercano, lo scrivono, «di fermare questo momento sospendendolo, portandolo all’estremo attraverso la reiterazione, ripercorrendolo attraverso il meccanismo del loop e del rewind, come uno studio scientifico per prove ed errori. In cui la cavia siamo noi». Anche Irene Russolillo è in continuità con una sua idea di ricerca corporea innanzitutto ma altrettanto segnata dal portato sonoro, fonetico e percettivo che lega oralità e tradizione popolare.
Il suo Dov’è più profondo è un meccanismo fatto di incastri che disinnesca la danza per incontrare storie e pratiche immemori di comunità dei territori delle valli del Piemonte e della Valle d’Aosta, e che comprendono quelle genti germanofone chiamate Walser. Ancora una minoranza, un pensiero sulla minorità culturale, ancora uno spostamento della danza dove lei e il creatore delle partiture sonore, direttamente in scena Edoardo Sansonne (ripiegando timbri e materiali dall’archivio sonoro Cantar Storie di Domodossola e dal walser cultura e archivio del BREL Bureau Régional pour l’Ethnologie et la Linguistique della Regione Valle d’Aosta), ordiscono una narrazione “posturale” che annoda temperatura di un tempo arcaico col gesto prossimale, immediato, di un adesso che non trova più le sue radici. È stato un percorso di avvicinamento e conoscenza per la performer e il musicista con le persone che tengono anche sottili legami con quel patrimonio di valori, mettendoli a disposizione per un ripensamento, una ri-mediazione non solo linguistica ma antropologica a cercare di coglierne il senso, una indagine quasi sul cosa si trattiene oggi di quel tempo e quei “riti” che fanno comunità. E la Russolillo prova a introiettarne la temperatura, usa lo spazio come per rovistare tra gli scranni gestuali di una memoria condivisa che in quegli archivi recupera, smonta il paesaggio idilliaco dell’identità e reinventa la relazione tra persone e orizzonte, tra sé e l’altro, espone se stessa (in collaborazione a Sansonne) con minuzia di dettagli a un “gesto” artistico prezioso. Questa “prova” o studio viene raccontata, sezionata come per esporre le fonti individuate, anche quelle percettive ma, di fatto, per cercare una autenticità drammaturgica. Due approcci, Basti-Caimmi e Russolillo, che intervengono (almeno in questa fase non conclusa del processo creativo) proprio per mettere in mostra materiali, verificare con lo spettatore l’intenzione e le fragilità di un procedere, un dono quindi, offerta rara resa possibile da spazi indefiniti come Carrozzerie n.o.t che di questa non definizione contribuisce a decolonizzare il linguaggio.