Andato in scena all’Auditorium Parco della Musica per il Romaeuropa Festival gli scorsi 13 e 14 novembre, La nuova abitudine di Claudia Castellucci è un lavoro coreografico coerente con la sua idea di danza (o per meglio dire di ballo), probabilmente quello che meglio sintetizza un vocabolario di segni e di eco che l’autrice sembra aver archiviato negli anni come per raggiungere una estrema sintesi di quei gesti rituali e orchestranti. Gesti, come “parole” – direbbe il poeta Umberto Saba – «dove il cuore dell’uomo si specchiava – nudo e sorpreso – alle origini». Una partitura, quella di Castellucci, potente e magnetica seppure effimera nel cercare di lambire una trascendente traccia di cose sensibili, corporeità e spiritualità significanti che sembrano risuonare come rovesciamento dell’assunto di Abraham Joshua Heschel, nel “mostrare” una tensione dell’uomo alla ricerca di Dio (e non viceversa). A distanza di molto tempo, pure nella rimodulazione della compagnia fino all’attuale Socìetas, rimane intatto, nell’autrice Claudia Castellucci, un certo sguardo sul mondo, una personale e antica idea del ballo come cerimonia percettiva per gli astanti e per i performer, una certa necessità di come poter ridefinire i confini di una comunità allora come oggi in balìa del proprio ego (politico, estetico), operando con rigorosa, quasi feroce, ostinazione e distillazione iconica. Fin dai suoi esordi la Socìetas faceva parlare (in questo caso attraverso la penna di Pier Vittorio Tondelli) di «memorie tribali… non già semplicemente citando, ma assorbendo e naturalizzando». Prima con il raggruppamento Stoa e oggi presso la sua evoluzione semantica Mòra, Castellucci si muove in una investigazione del tempo e dello spazio che non è più soltanto circolare e disciplinare, ma di fisica contemplativa nel reciproco ascolto del corpo degli esecutori.
Allo stesso modo, La nuova abitudine risuona come un enigma: laddove il concetto stesso di spettacolo esorbita e annichilisce. Questo lavoro, analizzato anche da un punto di vista della sua ricezione, infiamma, inoltre, una serie di domande finanche sistemiche, ancora parcheggiate nei paraggi della cosiddetta “danza” e dei suoi statuti di legittimità, di codici riconosciuti, e di giudizi appoggiati ai soliti logori motivetti di una qualche abusata tradizione. Il lavoro della compagnia Mòra che la Castellucci guida con artigianale cesellatura incontra qui i Cantori del coro di musicAeterna diretti da Teodor Currentzis, e ne scaturisce una “abrasione” mnemonica di straordinaria bellezza, nel luogo in cui la partitura dei fenomeni del cantato seziona il ritmo dei movimenti così da avviluppare lo spettatore in un vortice di senso antico e proiettivo insieme che, come una mongolfiera liberata dalle proprie zavorre, si abbandona in un viaggio a suo modo iniziatico, “elementare” benché stratificato di rimandi e reiterate ossessioni metalinguistiche. La struttura coreologica del lavoro è movimento e pensiero (Rudolf Laban docet) portati all’unisono nell’evidenza palese di un calembour fonetico-plastico con la grammatica di un canto dalla grana “spessa”, canto Znamenny ci informano, di un’antica liturgia ortodossa del XVI secolo, pagine e pagine di sovrapposizioni tra la cultura religiosa greca e quella russa nella filigrana di una medesima iconografia. Posizionati a un lato del palcoscenico, i cantori aprono dando il fiato ai movimenti che si susseguiranno perfettamente geometrici e ritornanti, con accenni a scarti “intuitivi” (secondo la definizione che ne dà la stessa autrice). Movimenti che di tanto in tanto evocano “sfocature” o “sporgenze” individuali che muovono il sofisticato quadro della composizione con “escrescenze” materiche e perturbanti che a dispetto di una ostinata consecutio logica mostrano una tenuta “esemplare” della “rappresentazione”. La nuova abitudine svela così, in filigrana, un carattere felicemente asimmetrico e per nulla formale – a tutti gli effetti il carattere dell’esperienza d’arte – in quelle aperture e chiusure prima di tutto introiettate e poi “verbalizzate” in un movimento solo apparentemente (e semanticamente) ordinato. La scena essenziale non fa che amplificare i riquadri immaginifici, monocromi, delle silhouette, coagulate in alcune parti da un marcato timbro e dal gesto. Ed è oltremodo interessante La nuova abitudine nel definire una ulteriore sfumatura della danza, allora, nella dissimulazione della scrittura corporea che si propone per quello che è. Lavoro scenico necessario e salvifico, al di là delle intenzioni stesse che lo hanno mosso. È del 2020 il Leone d’Argento della Biennale Danza di Venezia a Claudia Castellucci, in una fortunata congiunzione astrale eretica che la vede in compagnia dei vincitori delle precedenti edizioni quali Michele Di Stefano e Alessandro Sciarroni, quanto lei anime non irreggimentate né scontate nel panorama della danza non solo italiana.
La nuova abitudine
coreografia Claudia Castellucci
danzatori Sissj Bassani, Silvia Ciancimino, Guillermo De Cabanyes, René Ramos, Francesca Siracusa, Pier Paolo Zimmermann
cantori del Coro musicAeterna Ivan Gorin, Kirill Nifontov, Aleksei Svetov, Artem Volkov
musica repertorio storico dei Canti Znamenny, San Pietroburgo
fastigio musicale della fine Stefano Bartolini
assistenza Coreutica Sissj Bassani
abiti Iveta Vecmane
scenario e luci Eugenio Resta
addetta alla produzione, organizzazione e distribuzione Camilla Rizzi
direzione della produzione Benedetta Briglia
tecnica Raffaele Biasco
tecnica in sede Carmen Castellucci, Francesca DiSerio, Rocìo Espana, Gionni Gardini
amministrazione Michela Medri / Assistenza amministrativa Simona Barducci, Elisa Bruno
produzione Societas in co-produzione con musicAeterna, San Pietroburgo; TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi.
RomaEuropa Festival, Roma, 13 e 14 novembre 2021.