Che cosa è oggi la ricerca? Quale è il rapporto tra pratiche del teatro e pratiche del pensiero? Che cosa vuol dire intercettare dei “mutamenti”, indagando un territorio “liminale” di transizione e di trasformazione che trova il suo tempo e il suo spazio in quelle “cornici duttili” senza precipitare nel caos delle teorizzazioni? E, ancora, si può pensare a dei processi creativi in grado di dare valore agli “atti” performativi e a uno scambio fattivo, dinamico, con gli spettatori? Ne abbiamo parlato con Roberta Nicolai, Direttrice artistica di Teatri di Vetro dal 13 al 19 dicembre 2021 al Teatro India di Roma.
Per la quindicesima edizione di Teatri di Vetro, dichiari di voler «tenere vivo il cuore, il centro, (…) della pratica della scena e del pensiero che la pensa». Come si traducono queste parole nelle scelte di poetica e di ricerca che tracciano le linee guida di TDV 2021?
Pratiche del teatro e pratiche del pensiero nel teatro sono interconnesse nella loro origine. Pensarle scisse è un errore di prospettiva. C’è una reciproca risonanza e appartenenza originaria tra l’atto creativo e il suo riflesso. Questo principio nella storia del teatro sembra sommergersi fino quasi a scomparire per poi riaffiorare prepotentemente in alcuni periodi, attorno ad alcune figure. Teatri di Vetro mette al centro del proprio fare questo pensiero e lo nomina “ricerca”. Un termine che sembra indicare una zona del sistema. Un termine che tra l’altro la scena contemporanea non ha inventato, ma ha assunto da generazioni del passato. In questa nuova centralità – diversa da dire “emergenti”, “innovativi”, “nuovi linguaggi”, etc – tutto si riposiziona diversamente. Viene ribaltato. Per me la ricerca è il cuore del sistema, senza il quale il cuore del sistema resta vuoto. E se resta vuoto il cuore, il sistema crolla. La ricerca non è una zona, un ambito, un settore. È l’energia vitale dell’intero sistema teatrale. Teatri di Vetro pratica questa prospettiva. In quattro anni quello che era un disegno, una mappa, un’architettura definita ma ancora vuota, è stata popolata, si è incarnata, si è fatta cose. Dentro le pratiche di questo popolamento, architettura e oggetti si sono scambiati informazioni. E questo perché l’architettura non era diversa dai suoi oggetti, voleva e tendeva ad essere della loro stessa materia, un incontro tra progetti artistici. Un contenitore organico che vuole e può modificarsi via via che viene popolato, un sistema definito ma poroso, capace di trasformazione. Questo carattere ineludibile di Teatri di Vetro ha attivato un sistema di scambi di informazioni, di piani tra l’architettura e gli oggetti che vi entrano. L’edizione del 2021 è una messa a fuoco. La attraversa l’elemento della prospettiva della visione che per me è uno degli elementi che l’architettura e ogni singolo oggetto condividono e che nell’insieme delineano una mappatura di varie forme di visualità. Non uso più immagine o forma. Credo che la scena sia più complessa dell’immagine, che ne sappia contenere e stimolare il percorso di creazione, il processo di individuazione dell’immagine. Ed è proprio nella ri-appropriazione dello spazio da condividere con gli spettatori – dopo quasi due anni di intermittenza e di negazione – che tali processi creativi di costruzione dell’immagine vanno a dipanarsi, nelle loro infinite possibilità, negli oggetti e nel festival.
Quale è a tuo avviso per gli artisti e per le artiste, nel momento storico che stiamo vivendo, la relazione tra bellezza e responsabilità?
Un livello molto critico e molto evoluto nel rapporto tra bellezza e responsabilità. Verso di sé, verso il contesto, verso la storia. Questa non è l’epoca delle grandi opere, delle grandi epifanie. Perché queste non hanno il potere di raccontarci quelli che siamo, l’umanità che siamo. La frammentarietà, la vulnerabilità dei corpi fisici e delle nostre vite sono la materia prima della bellezza-responsabilità. Molti artisti lo sanno e ne sono consapevoli. Molti lo praticano senza saperlo. Alcuni non se ne occupano o si occupano di altro foraggiando ciò che ci allontana dalla verità. Ma forse la questione andrebbe posta a tutti coloro che sono chiamati a guardare la scena: gli spettatori, gli operatori, i critici, gli studiosi.
Attraversare i confini e lambire i territori differenti di investigazione che cosa significa per lo spettatore? C’è una scrittura sullo sguardo, come direbbe Derrida, una “traccia” in qualche modo da seguire per ritrovare il senso dell’origine?
Se esistesse lo spettatore ideale, quello che compie tutto il cammino attraversando l’intero campo, ciò che il sistema attiverebbe in lui e lui attiverebbe per il sistema è la messa in tensione della relazione tra spazio e sguardo, tra la zona delimitata o aperta dall’azione performativa e lo sguardo che la osserva posizionandosi di volta in volta ad un grado di prossimità o distanza e da un angolo prospettico. Sono elementi interni all’azione scenica che diventano concreti attraverso la scelta da parte dell’osservatore. La scena non ammette passività. Esercitare lo sguardo e la riflessione sull’esperienza visiva e sensoriale mette in crisi il senso unico dell’osservazione, apre il nostro sguardo individuale alla molteplicità degli sguardi e dei punti di vista.
Puoi anticiparci come saranno strutturate quelle che chiami “cornici” e il loro costante “mutamento”?
Nel sistema Teatri di Vetro le cornici, queste scatole metodologiche che ne compongono l’ossatura, sono l’elemento necessario per poter condurre le indagini. Sono quella struttura che ci ha fatto operare in questi quattro anni, che ci hanno consentito di portare avanti la ricerca senza abbandonarci al caos e al tempo stesso senza irreggimentare pensieri e pratiche dentro un format precostituito, freddo, sterile.
Cornici duttili che con il tempo sono diventate un sistema di scambi in una modalità organica simile al nostro corpo che per crescere assorbe, espelle, si trasforma, processa informazioni e materia.
Così già in questi quattro anni le cornici hanno attraversato mutazioni. Alcune sottili, altre evidenti. Le evidenti vanno in due direzioni: la prima è l’ampliamento del significato e quindi del territorio di ogni cornice rispetto a sé stessa. Trasmissioni ha posizionato l’atto performativo al centro del suo piccolo sistema. Composizioni ha assunto molteplici sensi ospitando progetti che prevedono la partecipazione dei cittadini e zone di scambio di pratiche in modalità orizzontale
Oscillazioni è esplosa approdando a oggetti inimmaginati, a prospettive di lavoro per gli artisti inedite e a forme di co-creazioni e di collaborazione inattese. Ogni singolo oggetto generato, ogni traduzione di supporto, piano, testo, materia non è rimasta confinata a sé. La cornice si è nutrita di ogni singolo oggetto e ogni singolo oggetto della cornice. Oggi io vedo emergere cose che non so ancora nominare. Questo mi fa pensare a quante parole ho trovato in questi quattro anni per dire, narrare, ricomporre o aiutare a scomporre. Ebbene oggi vedo più cose emergere di quante ne so dire.
L’altro elemento è la trasmigrazione di oggetti e artisti da una sezione ad un’altra. La necessità interna ad un progetto di cadere dentro la focalizzazione di più cornici. E l’esempio eclatante quest’anno è il progetto Booster e tutta la programmazione di Fabritia D’Intino, Giuseppe Vincent Giampino e Riccardo Guratti che sono presenti in Trasmissioni, Composizioni, Oscillazioni. La sezione di lavoro di Booster a settembre a Tuscania dentro Trasmissioni ha consentito un livello di analisi e messa in condivisione dei nuclei di lavoro attuali dei tre coreografi – dopo la prima residenza del 2020 in cui avevano lavorato sul repertorio di ognuno. Durante Composizioni hanno lavorato ad indagare le logiche compositive coreografiche individuali. Dentro Oscillazioni presentano esiti e studi in modalità plurali: sono assoli, co-creazioni a due, coreografie individuali a cui gli altri partecipano in qualità di interpreti. La loro presenza dentro il festival riflette l’architettura del festival. E ne nutre la sua trasformazione futura.
Che tipo di progetti hai messo in campo con le artiste e gli artisti coinvolti?
Con alcuni ho condiviso residenze, sala prove, tempi di analisi di riprese in video e di documentazione. Con altri ho lavorato a partire dal nominare cosa vedevo, cosa non vedevo. Con altri ancora ho attivato scambi per iscritto. Con altri ho indicato, non commissionato, ma indicato con decisione una direzione possibile. Il punto è che con ognuno il medesimo gesto ha determinato una posizione diversa da parte mia, un’attitudine assolutamente unica, generata dal progetto artistico e definita dalla relazione con l’artista. Ho detto tante volte che considero lo sguardo interno al sistema che tale sguardo guarda. Io non esprimo giudizi. Questo atto non solo è troppo semplice rispetto alla complessità della scena contemporanea, ma è superato da ciò che è il mondo in cui viviamo. Metto al centro la domanda rispetto alla percezione: che cosa mi sta chiedendo? Quale postura interiore mi chiede l’artista? E da lì, insieme, cerchiamo il cuore, la radice.
Questo è quello che voglio quando vado a teatro, essere spostata, delocalizzata da me. E questo vorrei che percepissero gli spettatori. Ciò che ci compiace, non è teatro. Per quello ci sono altre cose. Il teatro ci diverte, ci di-verte, ci sposta. Ci fa fare esperienza ex-perienza, ci fa uscire fuori da noi. È un pensiero antico e contemporaneo. Il resto sono giochi che con l’arte non hanno nulla a che fare.