Una certa Italia che va dal 1959 al 1981, anno in cui Giuseppe Loy, dirigente d’azienda, fratello del più celebre regista Nanni e marito dell’altrettanto celebre scrittrice Rosetta (nata Provera) lascia improvvisamente questa terra. A lui, sensibile e intelligente fotografo per passione, ma lungimirante artista che raccolse tutti i suoi “fogli di contatto” numerando migliaia di scatti realizzati in quegli anni, è dedicata una suggestiva mostra personale, in programma fino al 27 febbraio, alle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, ed in particolare nella Sala delle Colonne e nelle Cucine Novecentesche di Palazzo Barberini. Un’esposizione, a cura di Chiara Agradi e Angelo Loy, figlio del fotografo, che è frutto di un ragionato recupero di preziosi materiali (da un baule in soffitta), perfettamente conservati. Un lavoro, con la media partnership di Rai Scuola, partito con l’archiviazione digitale di ben 1.565 rullini in bianco e nero, 320 rullini a colori ed oltre 1.800 stampe d’epoca e costruito con l’intenzione di riportare alla luce il suo desiderio non di esprimersi ma di esprimere ciò che è sotterrato sotto l’appannaggio dell’”osservare” e che solo il “sentire” dell’obiettivo fotografico plasmato dall’intenzione del suo autore, riesce a far venire a galla.
Diviso tra il capitalismo d’azienda (lavora nell’impresa edile del suocero) e la passione comunista (nei ritagli di tempo anima una sezione del PCI della sua città, Roma), attraverso la fotografia Loy ha cercato di trovare un equilibrio intimo dando alla sua sensibilità artistica un’aura apparentemente informativa ma tappezzata di spunti di riflessione interiore. Del 1965 è la sua prima esposizione, presso la libreria Einaudi di Roma; a seguire, nel 1977, mostra un sostanzioso corpus di 560 fotografie nello spazio Altre immagini del Politecnico di via Tiepolo; quindi, è la volta della galleria Il Segno, nel 1979 e nel 1983, dopo la sua prematura scomparsa. Ma ancora si espongono i suoi scatti a Cagliari nel 2004, presso la galleria Sulis alla Fondazione Burri, a Città di Castello (2019) e, lo stesso anno, in Fuori le Zero presso la Galleria Fotografica Corsetti. Anche eccelse riviste specializzate si sono occupate della sua arte fotografica e poco prima la sua dipartita, lui stesso stava lavorando ad un progetto per un libro di fotografie che avrebbe dovuto intitolarsi proprio come questa mostra.
Dunque, un omaggio sentito, dovuto, mirato ma anche sorprendente per farci conoscere uno spaccato del nostro Paese tramite i suoi cosiddetti “appunti visivi”.
Il percorso espositivo, composto anche di epigrammi e parole ad accompagnare lo sguardo del fotografo, spazia dalla fotografia umanista, alla denuncia dell’aggressione edilizia del territorio italiano tra gli anni Sessanta e Ottanta, al racconto dell’amicizia con alcuni protagonisti dell’arte contemporanea. Si apre, anzi, proprio con gli scatti dedicati ai suoi amici Alberto Burri e Lucio Fontana, immortalati nel proprio studio, un ambiente che diventa rappresentazione di intimità domestica, a scaldare l’ispirazione dell’artista che qui passa le sue giornate pensando e creando, l’uno (Burri) una pittura di materia e l’altro (Fontana) una sagace prospettiva spaziale.
Si continua poi con “Il mare degli italiani”, serie che Loy arricchì nel corso degli anni e che avrebbe dovuto costituire parte di un progetto editoriale con Laterza, mai portato a termine. Tra spiagge e stabilimenti spogliati dall’aura dei jukebox di un certo cinema “colorato” e pregni di disarmante autenticità, l’occhio cade su Gaeta sul set del film Le quattro giornate di Napoli. Ma quell’Italia contadina, povera e semplice, sfila anche per viadotti abbandonati, prati incolti, pedane del tiro al piattello, rovine di edifici crollati o, peggio, mai costruiti: mosse a scacchiera che, ognuna nel suo entourage, ci guida a constatare il deturpamento di una città periferica, causa incuria umana. Il che, argomento peraltro di triste attualità, è un (re)immergersi in uno spaccato urbano in cui l’occhio nasconde la sua verità ma il suo prolungamento mentale denuncia. Natura, cultura e sviluppo economico vanno a braccetto in un itinerario fotografico che gradualmente aliena l’essere umano dal suo contesto rendendo questo, allo stato grezzo o di maltrattamento, il vero protagonista. C’è però una sinuosa curva poetica che aleggia in questi istanti immortalati, rinforzata dall’attività mentale di un fotografo che gioca apparentemente con i versi per farli incrociare, nei suoi appunti scritti a mano, con l’immagine che ha fissato. Nelle teche della sala grande, in tale ambito, è infatti mostrata una selezione di alcune poesie: anche qui, d’impatto scorgiamo parole sulla Libertà («Un giorno siederà con noi: la inviteremo a lavarsi bene le mani») Ironia («una delle poche armi che ci consente di applicare l’intelligenza al quotidiano») e perfino, tristemente, le Botte («l’uomo è l’unico animale che può dire di avere la sua femmina, ma non è vero. Per questo la picchia»).
Tornando alle immagini è utile menzionare l’osservazione di Emilio Garroni che nel 1983 parlò di uno stile, quello di Loy, fondato sulla “discrezione”: un incipit che fa trasparire, nelle sue opere, effettivamente una inquietudine stabile e repressa, sebbene timida nella selezione dello sguardo verso la materia universale ritratta. Un complemento oggetto, il “fotografato”, che appare come una composizione esistenziale composta di cellule di assurdità e che consuma inesorabilmente l’individuo nel suo annullamento del “qui ed ora”, nelle sue lente lacerazioni provocate da una lama di tensione silenziosa. Sotto altri aspetti, la figura umana si ricompone invece in un dialogo con l’opera artistica – e gli scatti legati alla sua presenza nella Biennale del 1966 ne sono una riprova: Loy coglie il suo attimo rubando gli sguardi dei visitatori come fosse un ladro di rose e di incanti che essi stessi, anche attraverso le lenti di un binocolo graduato autoriflesso, non si potrebbero altrimenti immaginare.
Ci si domanda: quanto potrebbe essere compresa oggi un’immagine che ritrae l’impronta del reale con la tecnica della sottrazione osteggiando ogni intento pubblicitario e di comunicazione di massa? Se la società contemporanea negli ultimissimi anni ha fondato la comunicazione visiva sull’apparenza e i social media l’hanno fatta da padroni, quanti e quali giovani potrebbero, attraverso un fugace sguardo alle opere di Loy, immedesimarsi o trovare uno spunto semantico come traccia della propria esistenza virtuale sullo schermo? Forse la soluzione potrebbe apparire nel trasportare qualche scatto emblematico proprio sulle stesse piattaforme “usa e getta”: ma non per privarlo della sua intrinseca essenza, quanto per divulgarne la portata e costringere gli occhi degli internauti a focalizzarsi su certi panorami che, sebbene appartengano a un’altra epoca, sono universalmente interiori.
C’è un genere umano variegato impresso dalla macchina fotografica di Loy, la storica Laica: da calciatori a passanti, da pargoli in vacanza a bigliettaie di cinema e venditori di bibite, sprofondati in un’architettura spiazzante e decostruita ma integrata alle pose in “moto a semi-luogo” dei fotografati. Eppure, come si evince dalla personalità del loro artefice espressa anche col “verbo”, certi contrasti fanno parte di un ordine protetto che segna uno stile inconfondibile ed un’appassionata ricerca alla conquista dell’altro e dell’altrui microesistenza. Ricerca peraltro foraggiata dai numerosi stimoli a lui offerti dal mondo del cinema e dell’arte. Non solo come segretario di edizione in una fugace esperienza insieme al fratello, ma nel legame compiuto di una vita accanto alla sua moglie-musa Rosetta e ai suoi amici artisti. C’è un po’ di Bergman, Pasolini, Rossellini, De Sica, Zavattini, Monicelli, Truffaut e Godard in questi scatti fotogramma (ad ognuno il suo), ma c’è soprattutto un Loy a volte ermetico ed esistenzialista, a volte reporter cronachistico decisamente non a caccia di scoop. La sua assoluta ironia iconografica non è mai presenzialismo o teatralità dell’effetto cercato nel gesto, portamento o espressione di una persona ritratta, bensì una continua ricerca della spontaneità di azione o situazione, con un assistente a volte di eccezione: un gioco di chiaroscuri quasi caravaggeschi che penetrano l’abisso della solitudine ritratta.
La storia fotografica di Loy è fatta di tante storie che ci inducono a una riflessione sul passato e sul fluire del tempo: un confronto però, con l’attenzione al contesto in cui l’occhio ha scelto il momento, è necessario per porsi in una prospettiva di immersione ed emersione dalla sua epoca, oltre che per operare un distanziamento critico che consente di valutare e valorizzare quanto amore per il suo “finto hobby” (in verità profonda professione passionale) Giuseppe Loy nutriva per ogni dettaglio che circondava la sua sfera psico-visiva.
Un pregiato catalogo trilingue, pubblicato dalla casa editrice DRAGO grazie al sostegno di Banca Popolare Etica, correda questa imperdibile esposizione: all’interno testi critici di Edoardo Albinati, Chiara Agradi, Luca Massimo Barbero, Bruno Corà, Emilio Garroni, Margherita Guccione, Angelo Loy, Rosetta Loy e Alice Rohrwacher.
E per chi volesse approfondire la conoscenza del suo archivio non resta altro che prendere appuntamento visitando il sito ufficiale https://www.fondazioneloy.com