La rubrica Esercizi di memoria, curata da Stefano Geraci e Paolo Ruffini e realizzata con Emanuela Bauco, Tiziano Di Muzio, Marta Marinelli e Andrea Scappa, in collaborazione con la Biblioteca di Arti dello Spettacolo dell’Università di Roma Tre, torna con un nuovo ciclo dedicato a Renata Molinari, scrittrice, drammaturga e docente di drammaturgia nella sua Bottega dello Sguardo a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna. Anche per questa terza tappa, le parole chiave attorno alle quali si riannoderanno i fili della memoria, saranno Contagio, Crocevia, Apprendere, Scene, Ciò che resta.
Non credo molto a quelli che dicono che fin da bambini sanno già cosa vogliono diventare o fare, a nove anni hanno scritto la prima tragedia, a undici hanno messo in scena il primo spettacolo. Io non l’ho mai saputo, neanche adesso, a sessant’anni.
Sono andata a Milano per l’università. Forse non avevo mai visto nessuno spettacolo dal vivo, se non quelli nel tendone delle feste del mio paese. A Milano in quegli anni si vedevano delle cose meravigliose. Il teatro usciva dai teatri, era comunicazione non verbale, era corpo, era qualcosa che sconfinava da sé stesso, incrociava la politica, aveva una funzione sociale, molto forte.
All’università, la Cattolica, furono determinanti le lezioni di Letteratura di Mario Apollonio e di Storia del teatro di Sisto Dalla Palma. Fu lui che incoraggiò noi studenti a creare un gruppo di lavoro teatrale. Non c’era mai stato un “prima”, nessuno di noi aveva mai fatto quelle cose lì, si imparava direttamente facendo. Peraltro, non avevo nemmeno intenzione di laurearmi in Storia del teatro, volevo fare una tesi in Psicologia sociale, sul ruolo sociale del malato mentale, ma non me l’accettarono e vinse il teatro. Con questo gruppo, che poi andò a confluire nel C.R.T. (1), facevamo animazione teatrale alla Comasina, e anche in altri quartieri milanesi. Abbiamo anche curato l’organizzazione per la venuta dell’Odin Teatret a Milano. Alla Sala Azzurra dell’allora Civica Scuola del Piccolo Teatro, in Corso Magenta, loro provavano Min Fars Hus e noi facevamo anche la guardia lungo gli scaloni che portavano alla sala. Un giorno arrivò di corsa un signore con una testa piena di capelli ricci e io che non sapevo chi fosse dissi: «Scusi, lei…? Lei chi è? Dove crede di andare?». E lui rispose: «Sono Franco… il migliore amico italiano di Eugenio Barba». Fu quella la prima volta in cui incontrai Franco Quadri.
Nel periodo in cui sono stata in Danimarca, all’Odin Teatret, dall’ottobre del ’73 al maggio del ’74, ho costruito una maschera. Facevamo un laboratorio di maschere usando il gesso, lo tagliavamo a strisce e lo mettevamo sul volto fino a farlo seccare. Io non avevo mai fatto maschere e non le ho più fatte. Non ho una particolare simpatia per le maschere e non mi piace averle in casa. A questa però sono particolarmente legata, ha anche il naso un po’ sbucciato. È sopravvissuta ad una quindicina di traslochi. La cosa che più mi aveva colpito, una volta estratto il calco della maschera dal mio volto, è che vidi il volto di mio padre, al quale tutti dicevano io assomigliavo molto anche se io tutta questa somiglianza non l’ho mai vista.
Quando l’Odin era passato da Milano con Mins Fars Hus, con Ferruccio Merisi (2), avevamo chiesto di andare a imparare da loro. Quel periodo fu terribile per via della crisi energetica bisognava risparmiare sulla luce e i danesi erano molto severi su questo, non circolavano nemmeno le macchine. Così ci ritrovammo all’Holstebro Høje Skole. Nell’ordinamento danese esistono queste scuole, parallele alla istruzione obbligatoria e al lavoro, rivolte a tutti dai 10 ai 90 anni e pensate per realizzare delle esperienze di apprendimento comunitario, anche per il contrasto alla dispersione delle fattorie nelle lande danesi.
Quella di Holstebro era una scuola d’arte con corsi di teatro, di musica, di cinema e per la lavorazione della creta. In particolare, la dramatik linee, cioè il corso di arti drammatiche, era realizzata dall’Odin. Noi italiani eravamo quattro. Io, Merisi, Pierfranco Zappareddu (3) e un ragazzo romano di cui non ricordo il nome. E poi c’erano ragazzi danesi, inglesi, norvegesi, groenlandesi, con tutta la complessità del rapporto tra danesi e groenlandesi. Facevamo lezione con Eugenio Barba e con altri maestri, c’era il training, si facevano le maschere e si lavorava con i bambini perché l’Odin faceva delle attività per il quartiere. È stata l’esperienza che ha determinato il mio ingresso nel teatro, forse suona un po’ enfatico, ma è lì che ho scelto il teatro come ambito di attività.
Al ritorno dalla Danimarca cominciai a lavorare al C.R.T., nato da poco. Qui ho avuto dei contatti più stretti con Franco (Quadri). Quando me ne andai dal C.R.T. Quadri, su proposta di Maria Grazia Gregori, mi invitò ad entrare nel Minotauro, l’associazione con cui lui organizzava le attività teatrali alla fine degli anni Settanta. Mancando delle persone per Il Patalogo, mi chiese se volessi lavorarci e accettai. «C’è un’emergenza» – mi disse Franco, questo era tipico di lui, lo sa bene chi lo ha conosciuto – e poi dopo dall’emergenza vai avanti.
1) Il C.R.T. (Il Centro di Ricerca per il Teatro) è stato fondato a Milano da Sisto Dalla Palma nel 1974. È stato un punto di riferimento per la ricerca e la sperimentazione del teatro. Per il C.R.T. sono passati i maggiori innovatori della scena nazionale ed internazionale. Nel 2013 si è trasformato nella Triennale di Milano.
2) Il regista Ferruccio Merisi legato all’ambiente del Terzo Teatro verso la fine degli anni Settanta aveva fondato a Milano il Teatro di Ventura. Nel 1990 ha fondato la Scuola Sperimentale dell’Attore a Pordenone.
3) Il regista Pierfranco Zappareddu oltre ad aver fondato uno dei primi teatri di ricerca in Sardegna – il “Teatro Studio” – è stato un animatore culturale che riuscì ad ospitare in Sardegna le più importanti avanguardie europee; ad esempio, un’edizione memorabile del Marat-Sade. Fu anche organizzatore della tournée dell’Odin Teatret in Sardegna nel 1974.