Kafka, il bambino, l’adulto che non è mai diventato, fagocitato da un gigante che, dopo averlo divorato, lo ha sputato fuori esattamente come adesso lui tenta di fare con le parole della sua Lettera al padre. Di questo testo comprendiamo il significato più profondo, secondo Gilles Deleuze e Félix Guattari, se non cediamo alla tentazione di una lettura edipica. Anche Max Brod, caro amico di Kafka, lo stesso che salvò le sue opere rifiutando di bruciarle come Kafka gli chiese prima di morire, ci mette in guardia da questo tipo di interpretazione. Nel ritratto della figura paterna che come un mosaico si compone davanti ai nostri occhi, Edipo non c’entra, o meglio, Edipo cerca un’alternativa a quell’inevitabile annientamento del padre a cui è destinato.
Il figlio qui, pur totalmente schiacciato dalla presenza ingombrante di una figura che non gli ha mai permesso di esprimersi liberamente, ma che al contrario lo ha castrato in ogni sua iniziativa e spinta vitale, cerca ancora disperatamente con lui un punto in comune e lo individua nell’infelicità. In questo modo, a partire da una sua riscoperta innocenza, Kafka non è più costretto ad affrancarsi dal padre ma può tentare una via diversa. Attraverso questo grido – confessione che è Lettera al padre comprendiamo che la sua figura, così smisurata e ingigantita, rende inospitale ogni spazio tanto che Kafka scrive: «Ho l’impressione che per vivere mi possano andare bene solamente i luoghi in cui non sei tu o quelli che sono fuori dalla tua portata». La soluzione quindi non è ucciderlo ma tracciare un percorso a lui sotterraneo, esattamente come quello che la talpa scava nel racconto La tana.
Si resta sorpresi e anche un po’ smarriti nel vedere come tutti questi elementi vengano magnificamente alla luce nella ricerca teatrale che Gabriele Linari porta avanti da diciotto anni con il suo lavoro, intitolato appunto Lettera al padre. Lo spettacolo è tornato da poco a vivere a Fortezza Est, realtà teatrale emergente sempre più in fermento, dove è andato in scena dal 10 al 13 febbraio. Linari è alle prese con più testi kafkiani, uniti tra loro dal tema del padre, trama sottile che, come la tela di un ragno, intrappola il figlio senza lasciargli più scampo. Pochi elementi scenici – un cavalluccio di legno, un secchio di metallo, una scala – danno vita ad un universo costellato di immagini che altro non sono che la ripetizione di quel movimento di fuga più volte tentato e più volte fallito. Ed ecco che quell’ingigantimento della fotografia del padre è perfettamente reso scenicamente attraverso una gigantesca ombra proiettata sul muro. Sebbene sia la figura del figlio a generarla, quella che appare però è l’immagine del padre, quasi a suggerire che Kafka è talmente schiacciato da lui da non avere neppure la libertà di una sua ombra, essendo sempre inseguito dalla paura di quell’uomo.
Il corpo di Linari, magro come quello di Kafka e impressionantemente simile a quello del pittore Egon Schiele, è dotato di una straordinaria agilità che mette in moto una vera e propria macchina letteraria. Di questa macchina, ovvero l’opera kafkiana considerata nella sua interezza, le lettere costituiscono una parte fondamentale. Su questo Deleuze e Guattari si esprimono chiaramente: «Non è possibile concepire la macchina di Kafka senza far intervenire il movimento epistolare. Può darsi anzi che gli altri pezzi siano montati proprio in funzione delle lettere, delle loro esigenze, delle loro potenzialità e delle loro insufficienze. Le lettere, quelle scritte all’amata o al padre, si offrono quindi come sostituzione perfetta del rapporto mancato con la persona a cui sono destinate».
Le parole, mai consegnate al padre in vita, e trattenute a lungo in un corpo che non sopporta più di contenerle, vengono così sprigionate sulla scena. Di questa espulsione-esplosione massima manifestazione è il singhiozzo che Linari simula talmente bene che per un momento lo spettatore è portato a credere che sia lui – l’attore – e non il personaggio a soffrirne, talmente forte è l’identificazione tra i due.
Quando Linari sale e scende da quella scala che diventa misura di tutte le cose, ci accorgiamo che quell’oggetto di metallo non è altro che la rappresentazione del padre stesso. E allora tutti quei movimenti di risalita non sono che un un corpo a corpo con lui, l’uomo che per tutta la vita non lo ha mai fatto sentire all’altezza. Quei gradini, che per il padre non sono niente, diventano per il figlio ostacoli insormontabili. Il mondo, in cui il padre si muove con disinvoltura, è per Kafka un labirinto cieco. Di questa inadeguatezza sono massima espressione i testi scelti con cura da Linari. Oltre a Lettera al padre e a La Metamorfosi prende vita sul palco un altro racconto molto significativo: Undici figli, che viene reso attraverso una pila di libri che vengono prima osservati, poi sfogliati, inizialmente lodati e infine scartati perché ritenuti non adatti alla vita. In ognuno di loro il padre individua un difetto: qualcuno è troppo gracile, qualcuno ha l’occhio sinistro più piccolo del destro, qualcun altro è troppo ingenuo. E così, ancora volta, nessuno supera la prova del padre.
Dal lavoro di ricerca di Linari su Kafka, oltre allo spettacolo Lettera al padre, è nato recentemente un podcast, disponibile su Spotify e intitolato Kafka, racconti, in cui l’attore legge e commenta la sua opera.
Lettera al padre
di Franz Kafka
regia e adattamento di Gabriele Linari
Fortezza Est, Roma, dal 10 al 13 febbraio 2022.