Deliziosamente brechtiano, M Il figlio del secolo è una grandiosa sintesi di un itinerario tracciato da Massimo Popolizio regista. Con tutto il background che disinvoltamente si porta sulle spalle, metabolizzato ed elaborato in totale autonomia.
La prima cosa che mi viene da dire è che è uno spettacolo ben prodotto. Il che significa che l’investimento di denaro (anche nostro, trattandosi di teatro pubblico), è andato a buon fine.
I soldi sono lì, tradotti in diciotto attori di altissimo livello, innanzitutto, non già star afasiche prestate dalla tv, che costano da sole come un intero spettacolo; in costumi magnifici (Gianluca Sbicca) che sono un grande valore aggiunto nel restituire i colori e la temperatura di un’epoca; in scene intelligenti, cioè sostanzialmente semplici ma molto efficaci, funzionali e versatili (Marco Rossi).
A monte c’è un pensiero chiaro e preciso che rifiuta la presa di posizione ideologica a favore di una leggerezza da varietà colto di eco brechtiana, un’idea solida di messa in scena dispiegata attraverso una successione di trenta quadri, non necessariamente rispondenti a un ordine cronologico, eppure omogenei, che procedono per rinvii tematici o stilistici con fluidità, senza brusche fratture. Né sarebbe possibile raccontare sei anni di storia italiana e rendere più di ottocento pagine di un libro in non più di tre ore, se così non fosse.
Il romanzo, si sa, è quello di Antonio Scurati, premio Strega 2019, adattato dallo stesso Popolizio insieme a Lorenzo Pavolini e gli anni sono quelli che vanno dal 1919 al 1925, cioè dalla fondazione dei Fasci di combattimento al delitto Matteotti.
In mezzo, quel che sappiamo e quello che ci siamo dimenticati. La marcia su Roma, il discorso in Parlamento del 3 gennaio 1925, il dilagare dello squadrismo, gli scioperi e gli scontri di piazza, l’assalto alla sede milanese dell’“Avanti!”, i socialisti e gli scheletri dei socialisti, ma anche Marinetti, il Futurismo e la glorificazione della guerra, Gabriele d’Annunzio e l’impresa di Fiume, Margherita Sarfatti e l’impresa del duce: trasformare un troglodita in un intellettuale imparaticcio, approntato perché il Re gli conferisca i pieni poteri. Spaccati di storia d’Italia – politica, militare, culturale – che cercano di spiegare come sia stato possibile che un Paese uscito stremato da una guerra che i libri di storia ci danno per vinta, si sia consegnato nelle mani di un dittatore.
Un uomo la cui immagine depositata nell’iconografia collettiva è molto differente da quella che ci viene incontro in questo spettacolo.
Con il distanziamento sia dallo stereotipo sia dalla verità così come ce l’ha consegnata la storia, ci è chiaro fin dalle prime battute che al centro non c’è un personaggio o una contingenza storica ma un più ampio discorso sul potere, discorso che arriva fino a noi e del quale ancora non si intravede la fine.
Mussolini qui non è quello dalla postura ridicola, stivalacci e mani sui fianchi, mascella volitiva e mento all’insù, nemmeno la testa è calva come da immaginetta, ma ha la folta chioma bianca di Tommaso Ragno, o quella stessa di Popolizio, superlativi entrambi del dividersi il ruolo: fragile il primo, a tratti spaesato, persino lunare, istrione il secondo, provvisto di maschera indossata a vista a rimarcare la natura di commediante impudente sul palcoscenico della vita degli altri, manipolata come un cattivo demiurgo.
Il discorso sul potere infatti diventa immediatamente discorso sulla manipolazione delle coscienze, obnubilate da un farabutto che aspetta il proprio turno per divorarsele in un colpo, facendo leva sugli istinti peggiori, sulla violenza incubata, sui bisogni e la disperazione della povera gente, promettendo benessere, treni in orario e posti al sole.
Chissenefrega se poi le cose sono andate diversamente. «Quando il popolo ha imparato a dir che sei bravo, poi pure se non dici più niente, sei bravo lo stesso».
Allora puoi pure disprezzarlo e deriderlo dall’alto della tua postazione protetta, accomodato su una giostra a dondolare, pronto a sputare addosso anche a D’Annunzio che a causa della sua ciclotimia depressiva è di nuovo preda dell’eccitazione politica. Parole di teatrante.
Ma basta, tutto questo, a spiegare come sia stato possibile che un partito di poco più di cento anime sia diventato il più grande partito d’Italia?
Lo spettacolo non suggerisce risposte né procede per tesi, casomai per provocazioni indiziarie che trovano nella cifra espressionistica, anche iperbolica, il loro e il nostro divertimento.
L’utilizzo frequente della terza persona per parlare di sé è quello stesso adottato da Scurati, ma è anche la formula già ampiamente collaudata dalle precedenti regie di Popolizio, e sottolinea il distanziamento epico utile a maneggiare i personaggi, a maltrattarli, smascherarli, schernirli, anche a riderne, se è il caso. Perché alla fine questa grande gigantesca tragedia della storia è fatta anche di tanti buffi cialtroni pronti a fuoriuscire quando meno te l’aspetti, quando sentono parlare di sé. Magari da sotto il letto, come succede in una scena quasi comica tra Benito e la Sarfatti.
Un momento in cui Sandra Toffolatti e Tommaso Ragno raccontano, dei due, l’intimità violata da timori che prendono corpo, ma buffamente, sorprendendoli dal buco della serratura, lei a gattonare sul letto, lui in pigiama e bombetta.
Gli attori sono chiamati tutti a un impegno che ha del camaleontico: diciotto interpreti per ottanta personaggi è qualcosa che se non sei attrezzato non ce la fai. Popolizio è andato sul sicuro ingaggiando una schiera di colleghi garanti e garantiti, con cui aveva già lavorato o che aveva diretto in precedenti spettacoli. Tommaso Cardarelli, Paolo Musio, Michele Nani in Nemico del popolo, Alberto Onofrietti, Flavio Francucci e Francesco Giordano in Ragazzi di vita. Ma anche gli altri sono reclutati da un serbatoio di esperienze comuni, più o meno recenti, o dai laboratori di Santacristina, tanto che sembra di avere a che fare con una compagnia stabile.
Voci e percorsi che si parlano e si accordano e il pubblico lo avverte. Si sente la fiducia e la condivisione di intenti. Ed è molto difficile soffermarsi su una scena a scapito di altre.
Si riconoscono soluzioni già adottate in altri lavori, da Ragazzi di vita ai Masnadieri, che imprimono alla regia un’identità molto precisa: il mezzo di locomozione spinto a mano; i personaggi presi in braccio; l’avanzare del popolo (qui sono i socialisti con le bandiere rosse), reso da un movimento ascendente sul posto; la passerella della donna delle pulizie, una specie di Tiresia dell’Agro Pontino, adeguatamente minacciosa, interpretata da Riccardo Bocci, lo stesso attore che interpreta D’Annunzio, ulteriore conferma della cifra brechtiana dell’intero lavoro.
Sono espedienti che sorreggono le scene e le completano rendendole vitali e dialoganti e, insieme alle ricche proiezioni documentarie, fanno sì che una semplice struttura come una tribuna mobile o una gradinata possano diventare di volta in volta quello che serve.
Voglio sottolineare quella pennellata “retorica” che è la mezza automobile sulla quale viene trasportato Matteotti, sorta di sineddoche che cita il Futurismo.
Ma veniamo a Matteotti. L’antagonista. Il martire. Il puro. Il personaggio che porta su di sé la forza di un’idea e la verità del sentimento, il più lirico di tutti, forse l’unico che si sottrae all’epica della terza persona per parlare direttamente, per entrare nelle corde e nei cuori di chi ascolta. Interpretato da Raffaele Esposito, Matteotti ritorna anche in una scena post mortem a rassicurare la sua amata Velia (Francesca Osso), vicini e irrimediabilmente lontani come già lo furono in vita, costretti a un amore a “rilascio lento”, epistolare, testimoniato da frammenti di frasi che qui volano tra il palcoscenico e la gradinata.
Voglio ancora citare, in ordine sparso, il pianto capriccioso di Umberto Pasella alias Tommaso Cardarelli, l’operaio torinese di Alberto Onofrietti, l’invettiva di Ida Dalser di Diana Manea, l’Italo Balbo venale di Paolo Musio che si domanda quanto guadagni un fascista, il reporter di Michele Nani, la ragazza fascista di Giulia Di Renzi, e ancora Gabriele Brunelli, Antonia Perretta, Beatrice Verzotti, anche donna Rachele. E di nuovo Margherita Sarfatti in eccitazione di potere, nostrana lady Macbeth per un momento, e infine il testa a testa tra il Benito di Tommaso Ragno e il Pietro Nenni di Musio, ora rivali ma un tempo compagni di cella, che si consuma con l’immagine di Marx sullo sfondo. Un momento in cui il dialogo si fa carnale, viscerale, diretto, come un “incontro a mani nude sulla storia”.
Sono punte o sporgenze di un lavoro corale in cui tutti, davvero, hanno dato il meglio di sé per portare a casa, tra un tampone e una quarantena, un lavoro che di questi tempi fa ancora più effetto.
Realizzato in coproduzione tra Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma, Luce Cinecittà e in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina, auguriamo a questo spettacolo una lunga tournée nelle prossime stagioni, considerando che quest’anno sarà visibile solo a Milano, Teatro Strehler, fino al 26 febbraio e a Roma, Teatro Argentina, dal 4 marzo al 3 aprile.
M Il figlio del secolo
uno spettacolo di Massimo Popolizio
dal romanzo di Antonio Scurati
collaborazione alla drammaturgia Lorenzo Pavolini
con Massimo Popolizio, Tommaso Ragno, Sandra Toffolatti, Paolo Musio, Raffaele Esposito, Michele Nani, Tommaso Cardarelli, Alberto Onofrietti, Riccardo Bocci, Diana Manea, Michele Dell’Utri, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Gabriele Brunelli, Giulia Heathfield Di Renzi, Francesca Osso, Antonio Perretta, Beatrice Verzotti
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Sandro Saviozzi
video Riccardo Frati
movimenti Antonio Bertusi
foto di scena Masiar Pasquali.
Produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma, Luce Cinecittà in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina.
Teatro Strehler, Milano, fino al 26 febbraio 2022.
Teatro Argentina, Roma, dal 4 marzo al 3 aprile 2022.