Quando si bombarda un teatro stipato di civili, chiunque sia il folle responsabile, la guerra è finita. Non esistono più regole, non c’è pietas, non vale più niente che possa avere un senso logico: i negoziati, la diplomazia, l’umanità. A Mariupol perfino la guerra che è orrore alza le mani. Nulla può davanti ad un gesto così forte e simbolico. Il teatro è luogo di cultura, di arte, dove la forza delle parole dovrebbe dominare ogni cosa. Invece il fragore delle armi, dei cannoni dell’artiglieria, ha tirato giù un monumento alla cultura, stipato di cittadini terrorizzati e impietriti. Forse loro pensavano che gli eserciti avrebbero risparmiato vite umane, che non fossero capaci di oltrepassare quella sottile linea di demarcazione tra logica e delitto. Invece no. Il teatro di Mariupol si è sbriciolato come fanno i castelli di sabbia travolti dall’alta marea. E sotto quel teatro è andato in pezzi una parte di umanità che si era ammassata in un rifugio aereo sotterraneo. Il teatro è crollato e si è dissolto. Non c’è più. E in quel disastro la maschera della guerra ha piegato la macchina teatrale verso l’orrore e il silenzio. Il rimpallo delle responsabilità rende tutto ancora più surreale. Ci vorranno anni per ricostruire tutto ciò che sembra oggi perduto per sempre.