Un assolo dalla doppia anima, dalla doppia voce, dalla doppia presenza. Un’Attrice e il suo passato. Un Maestro e la sua grande arte. Fantasmi. Visioni. Ricordi. Sentimenti. Parole. Il teatro – quello onirico, inquieto e tormentato dell’ultimo Pirandello – si insinua prepotentemente nelle pieghe più intime e più vere di un malinconico flusso di coscienza al femminile che è, anche e soprattutto, un omaggio al mistero stesso della creazione. Non domandarmi di me, Marta mia… (intorno al carteggio Luigi Pirandello – Marta Abba) si intitola l’intenso monologo in cui Katia Ippaso, lavorando sulle centinaia di lettere che il grande scrittore siciliano e la sua Musa si scambiarono per un decennio (dal 1926 al 1936), ripercorre una relazione artistica e umana assolutamente unica. E lo fa affidando alla brava Elena Arvigo la corposità materica di una donna/attrice ancora giovane e piena di speranze e, al contempo, l’evanescenza di una galleria di personaggi che, assecondando la memoria della donna, occupano lo spazio/tempo del monologo per trasportare il pubblico in una dimensione spesso metateatrale. Proprio come capita in molte opere pirandelliane.
Non è un caso, d’altronde, che dopo il debutto al Napoli Teatro Festival del 2019, la pièce, per la regia di Arturo Armone Caruso, sia stata presentata al Palladium di Roma nei giorni scorsi in occasione del centenario dei Sei personaggi in cerca d’autore: le assonanze tra la tessitura drammaturgica del monologo e quella del celebre capolavoro andato in scena la prima volta nel maggio del 1921 al teatro Valle sono sottili ma emblematiche, e non fanno che rendere ancora più “sincero” quel senso di fluidità, evanescenza, proteiformità del reale (e dell’irreale) attraverso cui Pirandello ha rivoluzionato le nostre scene aprendole ai sussulti della psiche.
Lunga vestaglia nera di stoffa leggera, capelli e frangetta corti, piedi scalzi, la voce mobile e fluttuante, gli occhi mai stanchi di illuminare le parole, Elena/Marta è sola. Fuori è buio. L’attrice, divenuta capocomica di una propria compagnia nel 1929 dopo la breve avventura del Teatro d’Arte, si trova a New York. Recita al Plymouth Theatre di Broadway e abita a Manhattan, davanti alla cattedrale di St. Patrick. Siamo nel 1936. La sera del 10 dicembre ella apprende della morte di Pirandello mentre sta a teatro. Comunica al pubblico la triste notizia, poi torna a casa. Le luci della cattedrale attraggono la sua attenzione. Ed ecco che, stando lì, nella tenue penombra di un palcoscenico quasi spoglio (una poltrona, una sedia, un baule, un piccolo scrittoio in stile rétro), a poco a poco inizia a stare “altrove”. La città le appare estranea. L’improvviso vuoto che pervade la sua vita assume la fisionomia di un’assenza dolorosa ma “presente”. L’ultima lettera del Maestro le è arrivata qualche giorno prima. Nessun accenno alla polmonite che gli sarà fatale. Solo un’estrema stanchezza rispetto al fare, al mondo, all’uomo: «(…) Io non faccio più niente, sto tutto il giorno solo come un cane a pensare a quello che ancora dovrei fare. Ma non mi va di aggiungere nulla al già fatto poiché gli uomini non lo meritano (…)». E poi l’ennesimo slancio di passione: «C’era prima una voce vicino a me che non c’è più. C’era prima una luce che non c’è più. L’unico mio bene è sapere che tu hai vinto, che tu trionfi, che tu sei lieta (…). Cara Marta, se penso alla distanza che ci separa, mi sento piombare nella mia atroce solitudine, in un abisso di disperazione. Ma tu non ci pensare. Ti abbraccio forte con tutto, tutto il cuore». Quella passione che lei, personalità dal carattere forte e determinato, non elargì con pari entusiasmo nelle sue missive, sempre molto pragmatiche, secche, persino formali.
Adesso però, in questa nottata così sommessa e preziosa, le parole del Maestro le suonano quasi nuove. Più vivide che mai. L’elegante regia di Armone Caruso, alternando compostezza e lirismo onirico, costruisce intorno alla donna una scatola di immagini proiettate sul fondo che vibrano di echi pirandelliani, la macchina da scrivere dello scrittore, il suo salone-studio del villino di Via Bosio, e di atmosfere proprie di un’intera epoca, con forti richiami all’arte di Sonia Delaunay. Le luci firmate da Giuseppe Filipponio spostano in quell’ambiente chiaroscurale i balzi controversi dell’animo e le musiche originali di MariaFausta accompagnano come un blues salmodiante la lunga veglia della protagonista, chiamata a colmare il suo lutto riempendolo giocoforza di passato, di ricordi, di fantasmi personali. E, tanto più, di noti personaggi teatrali: la Nina cechoviana (ruolo che le aprì la strada del successo), la figliastra dei Sei personaggi, la contessa Ilse de I giganti della montagna, la modella Tuda di Diana e la Tuda, l’Ignota di Come tu mi vuoi, l’attrice Donata Genzi di Trovarsi sono solo alcune delle figure femminili che Marta rievoca attraversandone battute, gesti, vocalità. Attraversandone cioè la sostanza poetica e insieme quella umana, in un corto circuito di verità e finzione che, come è ben noto, rappresenta il ganglio centrale del repertorio pirandelliano.
Sembra, insomma, che la scrittura della Ippaso si avvicini al mondo artistico e sentimentale che Pirandello e Marta Abba condivisero seguendo tre traiettorie drammaturgiche diverse ma complementari: le lettere del Maestro (sparpagliate sul proscenio come su un tappeto di giochi infantili) con i lori rimandi biografico-storici, lo stato emotivo della donna nelle circostanze sceniche in cui il testo la colloca e, infine, le visioni (meta)teatrali che ne moltiplicano l’identità. Dall’intreccio di questi tre punti di vista, di queste tre distinte lingue sceniche, emerge sempre più chiaramente la fragilità di entrambi i protagonisti e il fantasma del grande scrittore siciliano si fa presenza imprescindibile. Ed emerge, in modo se vogliamo ancora più significativo, un pirandellismo disarmante e modernissimo: «Lei è diventato scrittore ed io attrice…», dice Marta con acre ironia. Quasi un’ennesima presa di coscienza dell’opposizione tra l’Arte e la Vita, o forse di come l’Arte rubi sempre qualcosa alla Vita. Persino un amore. Persino la Vita stessa. È, d’altronde, questo il nodo di Trovarsi, opera che qui (siamo quasi alle battute finali) ribadisce il gioco di rifrazioni tra Donata e Marta, tra l’attrice e la donna, regalando alla protagonista un’ulteriore immersione dentro di sé e dentro l’universo di Pirandello.
A ciò si aggiunga poi l’estrema duttilità con cui Elena Arvigo riesce a restituire la poliedrica “natura” del suo personaggio. Gesti e posture semplici, evoluzioni vocali quasi sottoesposte, lievi cambiamenti di tono e di mimica: l’attrice genovese accompagna con docili determinazioni le evoluzioni del testo (pubblicato dalla rivista semestrale “Ariel”), diventa tante donne diverse, mantiene vivo il fantasma dello scrittore e, in un certo senso, riannoda qui il suo legame interpretativo con altri fortunati monologhi al femminile portati in scena negli ultimi anni. Pensiamo, per esempio, a 4:48 Psychosis di Sarah Kane, a Il Dolore – Diari della guerra di Marguerite Duras, a Una ragazza lasciata a metà di Eimear McBride. E pensiamo, tanto più, al reading La metafisica della bellezza – Lettere dalle case chiuse, in cui la scrittura epistolare ricostruiva un immaginario drammaturgico di grande intensità emotiva. Proprio come succede in questo Non domandarmi di me, Marta mia…: sensibile affondo nel teatro, nei temi controversi della creazione artistica, nel clima culturale tra le due guerre, nella lingua dei sentimenti propria di un uomo e di una donna che, sebbene fragili e soli, hanno condiviso il privilegio di saper inventare, vedere oltre la realtà, parlare con le ombre.
Non domandarmi di me, Marta mia… (intorno al carteggio Luigi Pirandello – Marta Abba)
di Katia Ippaso
con Elena Arvigo
regia Arturo Armone Caruso
musiche originali MariaFausta
scene Francesco Ghisu
disegno Luci Giuseppe Filipponio
image designer Elio Castellana.
Produzione Nidodiragno/CMC.
Teatro Palladium, Roma, 26 e 27 marzo 2022 nell’ambito della rassegna Sei personaggi in cerca d’autore. Un viaggio lungo un secolo, in collaborazione con l’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo.