«“Ciò che sentiamo” e “l’emozione” non sono la stessa cosa del “sentimento”. Noi non abbiamo una parola per descrivere l’emozione reale. Non è rabbia, non è tristezza. È qualcosa che potremmo accostare a una sottile ombra del sentire. È energia pura». Sfogliamo il libro Conversation with Meredith Monk di Bonnie Marranca (Performance Ideas) e ritorniamo al quadro sensibile che si anima una sera di aprile, al Teatro Rasi di Ravenna. Sul palcoscenico ci sono Meredith Monk e Bonnie Marranca, sua storica amica ed esegeta privilegiata. Le due donne sono arrivate in Italia grazie ad una potenza desiderante, quella di Ermanna Montanari e di Enrico Pitozzi, fondatori della Scuola di Vocalità e del Collegio Superiore di Estetica della Scena, un luogo che ha preso forma ad ottobre dell’anno scorso, non lontano dal Teatro Rasi dove ha sede la storica compagnia Teatro delle Albe (fondata negli anni Ottanta dalla stessa Montanari e da Marco Martinelli). Come atto battesimale della scuola, Ermanna Montanari aveva pronunciato un solo un nome: Meredith Monk. Pitozzi, docente all’Università di Bologna, autore di Acusma (Quodlibet, il libro che li ha fatti incontrare) era d’accordo. In fondo, come avrebbe potuto non essere d’accordo? Non è forse lui che da anni indaga le linee misteriche del suono e la luce? «L’essere della figura è luce, puro fulgore»; «Tradizioni diverse concordano nell’ipotizzare l’estensione della luce a partire da una vibrazione di carattere sonoro-vocale» sono parole sue.
Dopo un anno di corteggiamento paziente, alla fine la newyorchese Meredith Monk è arrivata veramente a Ravenna, in modo che noi potessimo registrare le sottili, diafane, vibrazioni, del suo passaggio.
Con le sue lunghe trecce e il suo volto assorto, ci ha donato qualcosa che è a metà tra la natura e l’arte, qualcosa che non è riservata a pochi iniziati ma che pretende di offrirsi come chiave di lettura del mondo e di ogni esperienza umana. Non ci soffermeremo, quindi, sui contenuti della conversazione live con Bonnie Marranca sul palcoscenico del Teatro Rasi. Non perché le cose dette non siano importanti. Ma perché quello che ci consegna esula dal logos. Fin troppe cronache affollano la nostra mente. Cosa ha detto veramente Meredith Monk? Ha parlato di arte, di buddismo, di musica. Benissimo. Ma la domanda corretta è: “come” ha detto tutto ciò? Quale è stata la sua postura? Come ci ha guardato? Da quale spazio-tempo? Dove ci eravamo dati appuntamento? Meredith Monk ha sempre dichiarato di essere una compositrice, ancora prima che cantante, performer, regista e coreografa. Come compositrice, analizza e restituisce il mondo intorno a sé. Meredith usa la composizione, e il canto, come sottili lame che l’aiutano ad attraversare la materia. Tutto questo è sempre stato. Ma è solo dopo l’incontro con la filosofia buddista che la sua arte ha acquistato un tratto ancora più sottile, impalpabile. Di fronte a noi, abbiamo osservato una donna in ascolto e in restituzione. Di che cosa? Di uno stare, di un certo modo d’essere e di trafficare con l’invisibile, al fine di renderlo visibile. Di una trasparenza, di una manifestazione “diafana”, di uno stato di latenza, di una condizione materiale-immateriale della creatura e della creazione di cui non si può determinare né l’esistenza né la non esistenza. Poche ore prima di ascoltare Meredith Monk e la sua esegeta parlare e di musica e di impermanenza, avevamo attraversato le stanze di Malagola, nel palazzo settecentesco che si chiamava già Malagola (era il cognome della famiglia aristocratica che lo aveva edificato), di fronte alla Basilica di Sant’Apollinare Nuovo e vicinissimo al Teatro Rasi. Un luogo dominato dal colore oro destinato alle teorie e alle pratiche della voce. La stessa Meredith Monk, con le sue assistenti, aveva appena tenuto un seminario sul canto. Il piano di sopra destinato alle pratiche, il piano di sotto in attesa di diventare un archivio di materiali inediti (da Carmelo Bene a Meredith Monk, da Mariangela Gualtieri a Roberto Latini), il giardino-pensatoio con le sue palme, le pareti affrescate da segni preesistenti e dal tratto inconfondibile dell’artista e disegnatore Stefano Ricci, le scale rianimate da ragazze e ragazzi che ci collegano, emotivamente, ad una esperienza iniziatica di tanti anni fa: Heimat di Edgar Reitz, il colossal cinematografico per anime romantiche che aveva fatto del Conservatorio di Monaco il fulcro di ogni passaggio conoscitivo, il centro di ogni segreto amoroso.
«Il corso, che noi chiamiamo semplicemente scuola, è un luogo della conoscenza, è laboratorio del presente, in cui i processi creativi vengono analizzati, decostruiti e rimontati in un continuo confronto tra teoria e pratica» spiegano i due direttori, che hanno immaginato di irradiare attorno al corso principale una serie di seminari che andranno avanti fino a giugno, dal titolo Cosmogonie: suono, voce, parola: «Un modo per aprire e condividere con la città una riflessione di ampio respiro, capace di cogliere il ritmo sottile e il battito del mondo espresso dalle civiltà che si affacciano sul Mediterraneo. Grazie al contributo di studiosi internazionali, si andranno a indagare le diverse cosmogonie: greca, ebraica, vedica, persiano-islamica».
All’origine di questa scuola, unica in Italia, c’è l’incontro tra l’attrice Ermanna Montanari e lo studioso Enrico Pitozzi, autori di uno dei testi più belli che ci sia capitato di leggere negli ultimi tempi: (Cellula, anatomia dello spazio scenico, An anatomy of stage space), una copertina virata sul bianco che al suo centro riporta “Text with red an Archives Division” (1400-1499), una specie di mandala custodito nella New York Public Library. È tra le sue pagine che possiamo trovare le fonti e le associazioni che hanno permesso di creare Malagola e di portare a Ravenna Meredith Monk. Benedette dalla poetessa Mariangela Gualtieri, che parla di «preghiera spontanea dell’anima», di “attenzione” e “presenza”, queste pagine si distinguono dalla saggistica teatrale e musicale perché contengono, al loro interno, quello che James Hillman chiama il «fare anima» con i suoi raffinati procedimenti di cui l’uomo, spesso ignaro, dispone. Non un’autocelebrazione dei lavori del Teatro delle Albe (che pure vengono usati come sponde e approdi di ragionamenti sensibili), ma un atlante alla Aby Warburg composto assecondando onde sismiche che si stringono attorno a certe immagini, a certi punti di luce, e a certe parole che non si innamorano di sé stesse ma sanno farsi tessitura di citazioni e rimandi sapienziali. A cominciare dalla parola che dà il titolo al volume bilingue: “cellula”. «Cellula è ciò che sta all’origine: qui le immagini sono al tempo stesso la cellula che le ha generate e il fossile che sono diventate» scrive Ermanna Montanari nell’Introduzione in forma di dittico. «In “cellula” non c’è nulla da documentare se non una certa vaghezza che ha a che fare con le nuvole, con la nebbia, fenomeni che ci permettono di vedere quel che non si riesce a vedere quando tutto è completamene visibile». E cosa si riesce a vedere oltre il visibile? Quel modo d’essere “diafano” di cui Meredith Monk è una delle più evolute incarnazioni. «Nel suo essere intermedio, il diafano permette al contempo la manifestazione di un fenomeno fisico e di qualcosa che fisico non è… È insieme microcosmo e macrocosmo» scrive Pitozzi nel capitolo dedicato alle manifestazioni del “Diafano”, che si danno attraverso un «sentire attraverso», come specifica Montanari in un passo successivo di questo magnifico libro: una mappa del vero sentire che si conduce negli interstizi sottili della tattilità, delle varianti cromatiche, del mondo vegetale e dell’ordine geometrico.
Malagola
Scuola di alta vocalità.
Diretta da Ermanna Montanari e Enrico Pitozzi.
Ravenna.
Seminari Cosmogonie: suono, voce e parola, da aprile a giugno 2022.
Ermanna Montanari, Enrico Pitozzi, Cellula. Anatomia dello spazio scenico/ An anatomy of stage space. Traduzione di Thomas Simpson. Introduzione di Mariangela Gualtieri, Quodlibet, Macerata, 2021, pp.256, euro 25,00.